LA VIRTÙ DELL’EPICHEIA. TEORIA, STORIA E APPLICAZIONE (II). DAL CURSUS THEOLOGICUS DEI SALMANTICENSES FINO AI NOSTRI GIORNI (1998)[1]

Angel Rodríguez Luño

 

I. IL CURSUS THEOLOGICUS DEI TEOLOGI CARMELITANI DI SALAMANCA

Dopo le importanti elaborazioni sistematiche del Gaetano e di Suárez, occorre soffermarsi sull’opera dei teologi carmelitani di Salamanca, i Salmanticenses, che, sulla scia del Gaetano offrono una buona messa a punto del problema Due sono le opere da esaminare: il Cursus Theologicus [2] e il Cursus Theologiae Moralis[3].

Il Cursus Theologicus colloca l’epicheia nel contesto della giustizia legale. Questa ha due parti: la prima mira al bene comune rispettando la lettera delle leggi e, mediante questa, alla mente del legislatore; la seconda si attua quando la lettera della legge viene meno («eo quod lex ibi deficit»), e si rivolge direttamente all’intenzione del legislatore, in modo tale da agire nelle concrete circostanze come il legislatore vorrebbe se le avesse tenute presenti. Questa seconda modalità della giustizia legale è l’epicheia, ed è «come la giustizia suprema, cioè che sta sopra le altre forme di giustizia: è infatti una forma eccellente di giustizia, ed è regolata dalla virtù giudicativa che sta sopra tutte le altre regole, vale a dire la “gnome»[4]. Citando esplicitamente il Gaetano, il Cursus riporta la definizione dell’epicheia da noi già conosciuta[5], e procede alla spiegazione dei suoi termini.

Viene chiarito in primo luogo che, nella definizione, appena citata, il termine “legis” comprende sia la legge positiva che la legge morale naturale, perché le esigenze di entrambe possono essere espresse con parole finite e limitate, che non sempre riescono a prevedere tutte le possibili situazioni particolari, e quindi possono darsi dei casi nei quali sarebbe «contra rectitudinem, si lex universalis ibi observaretur»[6]. L’attuazione dell’epicheia nell’ambito della legge morale naturale è illustrata con il classico esempio della restituzione del deposito. La correzione dell’epicheia è necessaria “frequentius” riguardo alle leggi positive. Per quanto concerne invece la legge morale naturale, il Cursus precisa che in essa ci sono «alcuni precetti, principalmente quelli negativi come “non blasfemare, non mentire”, ecc. la cui osservanza secondo la lettera della legge mai si allontana dalla rettitudine. Ugualmente, tra i precetti affermativi per sé mai può venir meno il precetto di amare Dio e altri di questo genere. Riguardo a questi precetti non c’è spazio per l’epicheia»[7]. È, in definitiva, la stessa posizione dottrinale sostenuta dal Gaetano.

Anche gli altri termini della definizione vengono spiegati seguendo i chiarimenti forniti dal Gaetano. L’epicheia corregge la legge solo quando questa viene meno “propter universale”. L’epicheia va distinta pertanto sia dall’interpretazione della legge espressa in termini ambigui o oscuri, interpretazione che “authoritative” spetta al legislatore e “doctrinaliter” ai giuristi, sia dalla dispensa e dal privilegio concesso dal legislatore. «Sono materia dell’epicheia quei casi che manifestamente non rientrano nella legge, e che se il legislatore avesse previsto, o se avesse voluto contemplarli con tutte le circostanze che qui e ora concorrono, li avrebbe escluso dalla legge, e avrebbe comandato il contrario»[8]. Ma devono essere tenute presenti tutte le circostanze che qui e ora concorrono, perché possono esserci dei casi che, se inizialmente fossero stati previsti, il legislatore non avrebbe fatto rientrare nella legge, ma una volta che la legge è stata promulgata desidera comunque farli rientrare, per la stessa ragione riguardante il bene comune già indicata dal Gaetano[9]. È questa un’osservazione che mette in luce l’idea, presente peraltro in tutti gli autori finora studiati, che l’epicheia è in funzione del bene comune, le cui esigenze costituiscono il suo criterio fondamentale di attuazione.

Il Cursus Theologicus ricorda infine, citando ancora il Gaetano, che il venir meno della legge in modo semplicemente negativo non costituisce un motivo eticamente valido per non osservarla; occorre che la legge venga meno «contrarie, propterea quod illius observatio manifeste est nociva»[10]. Non si tiene conto pertanto dell’opinione un po’ più larga di Suárez. Sembra pesare la considerazione che l’epicheia mira direttamente e senza la mediazione della legge al bene più alto; in ciò sta la sua importanza e anche la sua difficoltà: «quel bene è dificillissimo da raggiungere, e pericolossisimo è l’errore circa il suo uso. Frequentemente, non comprendendo bene quanto si è detto, qualcuno pensa di agire secondo l’epicheia, quando in realtà non si tratta di epicheia, ma di trasgressione e di disonero dell’obbligo (relaxatio) della legge»[11].

Il Cursus Theologiae Moralis si occupa dell’epicheia nel Trattato XI De legibus, capitolo IV, punto IV[12]. Si afferma, in primo luogo, che la virtù dell’epicheia non riguarda solo le leggi umane, ma anche la legge divino-positiva e la legge naturale[13]. Per quanto riguarda quest’ultima, si precisa che alcune volte l’universalità che le è propria si estende anche a tutti i singoli casi particolari. È il caso dei precetti negativi che vietano ciò che è intrinsecamente cattivo, come fornicare, mentire, blasfemare, ecc. In questi casi l’epicheia non ha alcun ruolo da svolgere, dato che in essi la materia non può perdere la sua malizia («tunc non habet locum epikeja: quia cum non possit denudari a malitia illa materia, in omni casu et eventu lex obligat, et sic nunquam licet praeter verba legis agere»). Altre volte, invece, il precetto non si estende a tutti i singoli casi particolari, perché il legislatore non ha voluto che date certe circostanze il caso rientrasse nella legge; o perché non ha voluto esprimersi su quel caso, sia perché non poteva tenerlo presente, come succede al legislatore umano, la cui conoscenza è limitata, sia perché, pur avendo una conoscenza senza limiti, come è quella del legislatore divino, non ha voluto considerare esplicitamente tutti i casi possibili, per evitare che il precetto risultasse complicato e confuso. Ben sapeva il legislatore divino che esiste la virtù dell’epicheia, per la quale gli uomini possono correggere l’universalità della legge, e interpretare la sua volontà alla luce delle circostanze. In ogni caso, l’epicheia ha luogo quando, date le circostanze, la cosa oggetto del precetto negativo può essere privata dalla sua malizia («quando illa res praecepta potest denudari a malitia»)[14].

Si afferma, in secondo luogo, che affinché un precetto sia oggetto dell’epicheia non basta che esso venga meno negative, ma deve venir meno contrarie. Il concetto di contrarietà al bene comune viene spiegato seguendo la tesi di Suárez, e non quella del Gaetano. Si ammette, pertanto, che è lecito staccarsi dalla lettera del precetto non solo quando altrimenti si agirebbe in modo ingiusto, ma anche quando, pur essendo moralmente possibile agire secondo la lettera del precetto, l’osservanza risulta molto onerosa o molto difficile. La ragione è che si ritiene ragionevolmente che in quei casi il legislatore non voleva obbligare[15]. Tuttavia è da tener presente che prima si è detto che questo discorso non si applica alle azioni intrinsecamente cattive.

Alla luce del pensiero del Gaetano e di Suárez, risulta chiara la presa di posizione del Cursus Theologiae Moralis. C’è da notare, tuttavia, che il ragiomento diventa spesso poco chiaro, perché sia le ragioni date che i rimandi all’opera di san Tommaso non precisano bene il contesto. Particolarmente si passa in modo non certo accurato dalle leggi umane alle leggi divine, passaggio che meriterebbe maggiore attenzione.

II. SANT’ALFONSO MARIA DE’ LIGUORI

La posizione di Sant’Alfonso sull’epicheia è in linea con gli autori studiati precedentemente, anche se è più accentuata l’assimilazione dell’epicheia a una causa scusante della trasgressione di un precetto. Sant’Alfonso, infatti, tratta dell’epicheia in un capitolo dedicato alle cause “quae excusent a transgressione praecepti”. Vediamo in primo luogo il testo di Sant’Alfonso:

“— Epikeja, seu epikia, est exceptio casus ob circumstantias, ex quibus certo vel saltem probabiliter judicatur, legislatorem noluisse illum casum sub lege comprehendi.- Salmant. cum Palao et Martinez.

Haec epikeja non solum locum habet in legibus humanis, sed etiam in naturalibus, ubi actio possit ex circumstantiis a malitia denudari.- Salmant.

Ut tamen detur locus epikejae, non solum debet lex cessare in casu particulari negative, quia nimirum deficiet tunc finis legis; sed debet cessare contrarie, nempe, quod lex reddatur damnosa vel nimis onerosa: quare potest negari ensis depositus domino, si ille sit abusurus. Ita Salmant. cum S. Thoma.- Sufficit autem, si aliter lex redderetur nimis dura. Salmant. cum Arauxo, Gordon, etc. Hinc excusatur ab auditione sacri, qui timet notabilem jacturam bonorum. Et etiam excusatur ab observationem festi, qui aliter amittere cogitur magnum lucrum; ut Suarez et Palaus apud Salmant.- El super hoc vide dicenda Lib III, n. 301”[16]

La posizione di Sant’Alfonso sull’epicheia in rapporto agli atti intrinsecamente cattivi è quella del Gaetano, del Cursus Theologicus e del Cursus Theologiae Moralis, e per quanto riguarda la sostanza anche quella di Suárez. La Theologia Moralis di Sant’Alfonso non offre nessun fondamento per affermare il contrario. Quando Sant’Alfonso ammette la possibilità che un’azione “possit ex circumstantiis a malitia denudari”, sta pensando a situazioni come quella della restituzione del deposito, o a circostanze eccezionali nelle quali avviene ciò che suárez chiama mutatio materiae. Si tratta di una posizione dottrinale che ai tempi di Sant'Alfonso era perfettamente conosciuta, e che pertanto non richiedeva ulteriori chiarimenti.

Un manuale alfonsiano, come quello di Scavini, lo conferma. Dopo aver esposto la posizione di Sant'Alfonso, aggiunge in nota: "Juxta Salmanticenses epikeja locum habere potest etiam in lege naturali et divina positiva, si actio possit ex circumstantiis a malitia denudari. Sic de lege naturali res suo domino reddere debet, et tamen negari potest gladius depositus domino, si illo sit abusurus: sic de lege divina positiva panes Propositionis non dabantur laicis, et tamen summus Sacerdos recte iudicavit se illos David prae lassitudine deficienti dare potuisse"[17]. Gli esempi mostrano con tutta evidenza che siamo nella linea più classica, senza rivoluzione alcuna.

III. LA MANUALISTICA

I manuali della seconda metà del secolo XIX e della prima metà del nostro secolo non aggiungono sul nostro tema niente di nuovo. È sempre più accentuato l'oblio del carattere virtuoso dell'epicheia. Noldin la studia nella quaestio dedicata all'interpretazione della legge. In essa l'epicheia viene definita come "interpretatio restrictiva legis"[18]. Per quanto riguarda l'ambito di applicazione dell'epicheia Noldin ripropone esattamente la posizione di Suárez. Ammette le tre ipotesi ammesse dal teologo di Granada, che viene citato in nota, e afferma che non è lecito usare l'epicheia nei confronti delle leggi irritanti: "Non licet uti epikia in legibus actum ipso facto irritantibus: in his enim legibus bonum commune postulat uniformitatem et certitudinem circa valorem aut nullitatem actuum, ita ut sine dispensatione omnes sint certo invalidi. Ideo mens legislatoris particulares casus excipere nequit"[19]. Più o meno sulla stessa linea si muove Prümmer[20]. L'epicheia viene definita come "benigna et aequa interpretatio non ipsius legis, sed mentis legislatoris"[21]. Questo autore sottolinea che non è lecito applicare l'epicheia alla legge morale naturale[22].

IV. PROBLEMI ATTUALI

1. L’interpretazione delle posizioni classiche

Già nella prima metà del nostro secolo alcuni autori hanno cercato di superare l'impoverita immagine dell'epicheia che si era andata affermando. Autori come R. Egenter[23], J. Giers[24], e E. Hamel[25] hanno contribuito al rilancio dell'epicheia tomista come virtù morale. Da una prospettiva alquanto diversa, si sono occupati dell'epicheia autori come J. Fuchs[26], e G. Virt[27].

Egenter sottolinea che per San Tommaso l'epicheia non è una tecnica per l'interpretazione e applicazione della legge, ma l'atteggiamento fondamentale del soggetto nei confronti di questa. Seguendo una valutazione di Wittmann[28], autori come Egenter[29] e Hamel[30] ritengono che esiste una certa ambiguità nella concezione tomista dell'epicheia. A causa della presenza di tracce neoplatoniche nel pensiero di San Tommaso, ci sarebbe una specie di frattura tra il concetto teorico di epicheia e la delimitazione troppo rigida del suo ambito di applicazione pratica. Nel 1965 Hamel ha confermato la sua valutazione[31]. La concezione di Suárez invece viene considerata da Hamel come "vraiment large"[32].

Diametralmente opposto è il giudizio di Virt, per il quale S. Tommaso ammetterebbe un’applicazione dell’epicheia più “larga” di quella di Suárez. Per S. Tommaso —afferma Virt— l'epicheia è la regola superiore delle azioni umane. Essa consiste nella capacità di valutare per conto proprio la situazione operativa concreta, considerata con tutte le circostanze e alla luce dei principi morali superiori. Come teologo cristiano, S. Tommaso va oltre la stretta giustizia oggettiva, e definisce l’epicheia come giustizia personale[33]. Il soggetto primario dell'epicheia è Dio stesso, perché solo Dio può rendere piena giustizia alla persona singola. Ma Dio —aggiunge Virt— rende partecipe l’uomo, come immagine Sua, della sua epicheia, il che garantisce la giustizia nella sua concrezione ultima[34]. Sempre secondo Virt, Suárez avrebbe sacrificato tutto questo alla certezza del diritto, e avrebbe limitato l'epicheia a tre casi ben circoscritti (le tre ipotesi ammesse anche dalla manualistica). Inoltre, la seconda scolastica aveva aggiunto alla legge morale naturale norme etiche concrete, mentre per San Tommaso questa conteneva soltanto i principi etici superiori. Perciò Sant'Alfonso ritenne che l'epicheia poteva essere applicata anche alla legge morale naturale "allargata" dagli scolastici spagnoli[35]. Virt conclude rilanciando il ruolo dell'epicheia. Nei recenti dibattiti sulla fondazione delle norme etiche sono stati recuperati molti elementi del concetto tradizionale di epicheia. Di fronte a certe situazioni concrete, speso confuse, e per le quali non si trova nessuna soluzione chiara, l’epicheia può superare i limiti di alcune norme giuridiche positive della Chiesa, aprendo la strada ad una soluzione accettabile in coscienza, che va presa sulla base di ciò che in ultima analisi San Tommaso chiama conditio personae[36]. È comprensible —conclude Virt— la paura nei confronti degli abusi dell'epicheia, ma la fede cristiana aiuta appunto a superare la paura che immovilizza. La fede rompe ogni sicurezza umana, pur necessaria, mantenendola aperta alla guida dello Spirito Santo[37].

In sintesi, per Hamel San Tommaso ha concepito in modo troppo rigido e stretto l'ambito di applicazione dell'epicheia, tradendo così il concetto teorico che egli stesso aveva elaborato. Suárez invece ha avuto il merito di allargare l'ambito di applicazione dell'epicheia. Virt pensa esattamente il contrario. San Tommaso concede all'uomo la capacità di valutare per conto proprio la situazione operativa concreta, mentre Suárez invece avrebbe codificato rigidamente l'ambito di applicazione dell'epicheia, limitandolo a solo tre ipotesi. Che cosa pensare di queste opposte valutazioni?

Stando al significato più evidente dei testi, sembra avere ragione Hamel. Ma l'interpretazione di Hamel risente, a mio avviso, di un difetto ermeneutico: interpreta quanto san Tommaso afferma nel contesto di un'etica delle virtù, quale è quella tomista, dal punto di vista di un'etica delle norme e dell'obbligazione quale è quella di Suárez e della manualistica. Per San Tommaso l'epicheia è una virtù, vale a dire, un principio della ragione pratica che rende possibile la posizione di atti buoni ed eccellenti in tutte le situazioni in cui si ha a che fare con un'espressione linguistica normativa deficiens propter universale. L'Aquinate non specifica di più, perché dal suo punto di vista non ha senso chiedersi in quali ambiti è lecito esercitare una virtù etica. Con parole di Sant'Agostino, la virtù è una buona qualità dell'anima qua recte vivitur, qua nemo male utitur. La virtù non può essere usata per il male. D'altra parte, mi sembra vero che nella seconda scolastica il concetto di legge morale naturale è stato "allargato".

Anche la posizione di Virt risente, a mio parere, di un difetto di prospettiva. Egli affronta lo studio dell'epicheia a partire dalla rilettura di San Tommaso realizzata dai sostenitori di una certa concezione dell'autonomia morale, e quindi inserisce l'epicheia nel contesto di una dialettica tra legge e coscienza che è estranea sia al pensiero di Aristotele sia a quello di San Tommaso. Questo ci porta inevitabilmente al recente dibattito sugli atti intrinsecamente cattivi.

2. L’epicheia e il dibattito sull’esistenza di azioni intrinsecamente cattive.

Dopo la pubblicazione dell'enciclica Veritatis splendor, alcuni autori hanno osservato che la teologia morale cattolica tradizionale, con l'approvazione almeno tacita della Chiesa, aveva ammesso delle eccezioni che riguardavano norme che l'enc. Veritatis splendor presenta adesso come valide semper et pro semper. Sembra che con questa osservazione essi non intendono suggerire direttamente che le eccezioni potrebbero o dovrebbero essere ammesse, ma piuttosto affermare che in passato queste eccezioni sono state pacificamente riconosciute, anche se presentate o giustificate in maniera diversa. Si intende presentare, in definitiva, una situazione di fatto con la quale la Veritatis splendor entrerebbe incomprensibilmente in contraddizione.

Così si sostiene che sulla base del concetto di epicheia, del principio del doppio effetto oppure attraverso sottili distinzioni concettuali, si riusciva a rendere compatibili il valore assoluto del principio "non uccidere" e la legittima difesa, la pena di morte, certe forme di lasciar morire e certe modalità di auto-sacrificio che hanno il sapore di un suicidio per motivi morali (per esempio, per salvaguardare la castità); il valore assoluto del principio "non rubare" e la liceità di prendere dagli altri i beni necessari per tirarsi fuori dallo stato di estrema necessità; il valore assoluto del comandamento "non mentire" e diverse forme di parlare ambiguo e di restrizioni mentali, ecc.[38]. Secondo questi autori, la morale tradizionale voleva risolvere in questo modo gli stessi problemi che oggi intende risolvere il proporzionalismo, ma lo faceva in modo poco coerente e comprensibile. Anzi —osserva Virt— lo faceva in modo tautologico e inconcludente: si impiegavano espressioni linguistiche valutative che davano per risolto in anticipo il problema da risolvere o non lo risolvevano affatto. Se l'assasinio viene definito come un omicidio ingiusto, è chiaro che l'assasinio non sarà mai lecito, ma questo non aiuta a risolvere, per esempio, il problema della legittima difesa, né ci permette di sapere se certi comportamenti concreti sono o non sono un assasinio[39].

Più concretamente, Virt e Hilpert lamentano il silenzio dell'enc. Veritatis splendor sulla virtù dell'epicheia, che dovrebbe consentire di dare alla morale un'impostazione più realistica, e che avrebbe un ruolo importante non solo sul piano delle leggi civili, ma anche su quello dei precetti morali. In modo particolare Virt lascia capire che sia la Veritatis splendor, sia la Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica circa la recezione della comunione eucaristica da parte dei fedeli divorziati risposati, pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 14 settembre 1994[40], trascurano quanto Sant'Alfonso aveva detto sull'epicheia in materia de legge morale naturale[41], osservazione con la quale Virt sembra voler suggerire, almeno implicitamente, che l'autorità di Sant'Alfonso, eminente santo e dottore della Chiesa, potrebbe essere invocata criticamente contro l'insegnamento in materia del recente magistero della Chiesa.

L'analisi dei testi realizzata precedentemente evidenzia, a mio avviso, che questa obiezione risponde ad una prospettiva morale estranea a Sant'Alfonso e alla tradizione teologico-morale nella quale egli si muoveva. In tale obiezione c'è, da una parte, l'idea che le norme morali categoriali sono norme semplicemente umane. Così Fuchs per esempio. Egli ammette certamente l'esistenza di una legge morale naturale non scritta, che non può mai essere deficiens. Ma ci sono anche le norme morali categoriali di legge naturale, "ovvero quelle norme concrete ed operative che determinano cosa corrisponda concretamente alla castità, alla giustizia, alla fedeltà, alla veracità, ecc. Tali norme infatti, in quanto 'sintetiche', non possono esistere senza l'esperienza della realtà di questo mondo e della vita umana e, nella loro determinazione ultima e concreta, senza una debita valutazione umana. Queste norme non sono altro che concezioni e giudizi fatti e 'redatti' dagli uomini stessi e perciò esse possono essere di per sé deficienti e generali piuttosto che non universali in senso stretto"[42]. Pertanto, secondo Fuchs, tutte le norme morali concrete possono aver bisogno di una correzione da parte dell'epicheia, perché sono in fondo norme umane. Siamo pertanto alla concezione descritta e riticata nei nn. 36-37 dell'enciclica Veritatis splendor, concezione che vede l'epicheia non come principio virtuoso di una scelta eccellente, ma come eccezione, e che non ammette l'esistenza di azioni intrinsecamente cattive. È vero che Fuchs tocca diversi problemi veri e seri, tra i quali sta per esempio quello della differenza tra genus naturae e genus moris o quello del concetto di norma morale, ma lo fa da una prospettiva normativista che non permette di risolverli in modo soddisfacente. Ho spiegato altrove tutta la questione[43]. Qui basti notare che una cosa è affermare che alcune formulazioni linguistico-normative di esigenze etiche riconducibili alla legge morale naturale possono qualche volta venir meno a causa della loro universalità, e un'altra è sostenere che il linguaggio umano non può esprimere in linea di principio esigenze etiche concrete ("categoriali") veramente universali. Dalla prima proposizione non scaturisce la seconda.

 C’è, poi, il vizio di descrivere in modo fisicista —e quindi per forza premorale— l’oggetto delle azioni umane[44], in modo da far rientrare sotto una stessa norma azioni fisicamente simili (genus naturae) ma moralmente eterogenee (genus moris), con l’inevitabile conseguenza che ogni norma morale negativa avrebbe molteplici eccezioni. Descrivendo le azioni senza concedere attenzione alla loro intenzionalità intrinseca (finis operis) vista in rapporto all’ordine della ragione, e quindi descrivendoli come un processo o un evento di ordine solamente fisico, alcuni affermano che la legittima difesa è un’eccezione al quinto comandamento, ma la stessa logica li porterebbe a sostenere la tesi ridicola che la santità delle relazioni coniugali è un’eccezione alla norma “non fornicare”[45].

Ma c’è soprattutto l’errore di prospettiva di trasferire senza i necessari accorgimenti un concetto proprio dell’etica delle virtù, quale è l’epicheia, ad un contesto normativista incentrato sul rapporto dialettico legge-coscienza, nel quale il bene è fondato sulla legge, e non questa su quello. La domanda da porsi è questa: il fondamento di una norma è la moralità dell'azione comandata o vietata, oppure la moralità dell'azione deriva dal suo rapporto con una norma umanamente stabilita allo scopo di raggiungere o mantenere uno stato di cose vantaggioso? Nella prospettiva di un'etica normativista moderna (Kant, l'utilitarismo, il proporzionalismo, ecc.), è vera la seconda parte dell'alternativa. Prima viene la norma, e poi l'azione buona o cattiva. Il problema era già stato posto esplicitamente da Kant quando spiega ciò che egli denomina "il paradosso del metodo di una critica della ragione pratica": "che cioè il concetto del bene e del male non deve essere determinato prima della legge morale (a cui esso in apparenza dovrebbe esser posto a base), ma soltanto (come anche qui avviene) dopo di essa e mediante essa"[46].

Questa impostazione normativistica risponde a ciò che veramente sono alcune leggi e regolamenti civili. La necessità di salvaguardare un certo stato di cose, che in'ultima analisi può contenere anche dei valori etici, giustifica una normativa, secondo la quale si distinguono le azioni buone da quelle cattive, azioni che non hanno una positività o negatività intrinseca indipendentemente dalla norma. Perciò, secondo coloro che estendono questa impostazione all'ambito morale, possono esserci eccezioni o interpretazioni secondo la epicheia in ambito morale sempre che ci si trovi in situazioni concrete nelle quali non rispettare la norma non mette in pericolo il valore che la giustifica. Un buon esempio può essere il codice stradale. L'ordinata circolazione delle autovetture, necessaria per tutelare il valore costituito dalla sicurezza dei cittadini, impone per esempio di tenere la destra e di fermarsi davanti al semaforo in rosso, e vieta il contrario. Ma possono esserci eccezioni e anche epicheia: nel primo pomeriggio di una domenica di agosto, quando la città è deserta, non ha molto senso aspettare davanti al semaforo, se la visibilità è buona e c'è completa certezza di non correre e di non far correre ad altri nessun pericolo; nelle stesse condizioni è moralmente possibile tenere la sinistra per alcuni metri in modo da evitare un'irregolarità del fondo stradale, ecc. Tutto ciò è possibile perché non c'è un disordine intrinseco in quelle azioni, che sono buone o cattive soltanto per il loro rapporto ad un regolamento che generalmente è funzionale ad ottenere uno stato di cose vantaggioso o addirittura necessario.

Ma il contesto etico che ha visto nascere il concetto di epicheia è assai diverso. In esso le virtù sono fini generali di validità assoluta e universale che, in quanto stabilmente desiderati dell'uomo virtuoso, permettono alla ragione pratica (prudenza) di individuare —quasi per connaturalità— l'azione concreta che hic et nunc può realizzarli. In questo contesto di concrezione prudente del fine desiderato grazie all'abito virtuoso si colloca l'epicheia. Quando un'esigenza etica, che originariamente è un'esigenza di virtù, viene espressa attraverso una formulazione linguistico-normativa che non prevede le circostanze eccezionali in cui l’agente viene a trovarsi, l'epicheia permette un perfetto adeguamento del comportamento concreto alla ratio virtutis. Il deposito va restituito in quanto che restituirlo è un atto della virtù della giustizia. Nei casi eccezionali in cui restituire il deposito non è più un atto della giustizia, anzi sarebbe un atto contrario alla giustizia, la virtù dell'epicheia permette di arrivare al giudizio prudenziale che qui e ora non deve essere restituito. L'uomo giusto (colui che possiede la virtù della giustizia) non può non rendersene conto.

Se per esprimere questa realtà diciamo che le norme morali riguardanti la giustizia ammettono eccezioni, o che non hanno un valore universale, stiamo creando confusione, perché le virtù —vale a dire, i principi pratici della ragione quali esigenze etiche originarie— non ammettono eccezioni. L'epicheia è necessaria appunto perché —dica quel che dica la lettera della legge— la giustizia e le altre virtù etiche non ammettono eccezioni. In senso rigoroso l’epicheia non va concepita secondo la logica dell’eccezione, della tolleranza o della dispensa. L’epicheia è principio di una scelta eccellente, e non significa né ha mai significato che, per eccezione, sia moralmente possibile ammettere un po’ di ingiustizia, un po’ di lussuria e via dicendo, fino ad arrivare al compromesso desiderato con le tendenze culturali in atto.

Nella prospettiva che a noi sembra più adeguata, ogni norma veramente etica ha un fondamento ontologico, che è la positività o negatività etica intrinseca di un tipo di azione morale, che appunto in quanto categoria analitica propriamente morale deve essere descritta in modo non fisicista, vale a dire: deve essere descritta secondo il suo genus moris e non secondo il suo genus naturae, e pertanto mettendo in luce il tipo di rapporto esistente tra l'intenzionalità intrinseca all'azione stessa (finis operis) e i principi costitutivi della ragione pratica (le virtù). Le norme valide semper et pro semper sono in ultima analisi comprensibili soltanto in questa prospettiva, nella quale esse rispondono al fatto che esistono azioni con un'identità morale negativa che rimane sempre, perché nella loro intenzionalità volontaria intrinseca c'è un contrasto importante con i principi della ragione pratica (le virtù). Non è esatto dire che queste azioni sono in sé cattive indipendentemente dal loro contesto, perché in realtà sono azioni che portano con sé, e inseparabilmente, un contesto, una rete di relazioni etiche sufficienti a determinare univocamente e invariabilmente la loro moralità essenziale. L'adulterio, per esempio, è un atto che s'inserisce negativamente nella rete di relazioni etiche istaurata dal matrimonio. Più in generale, si avrà un atto intrinsecamente cattivo sempre che viene scelto un comportamento che, in virtù della sua intenzionalità volontaria intrinseca (finis operis), incide negativamente sulla rete di relazioni verso Dio, verso il prossimo o verso se stesso (auto-relazione) determinata dalla carità. Anche da questa angolatura si vede che l'epicheia non può essere concepita secondo la logica dell'eccezione; anzi, l'epicheia trova il suo fondamento nel principio della non eccezione: il valore intrinseco delle esigenze virtuose non tollera eccezioni, e perciò il loro rispetto sta al di sopra anche delle formulazioni normative, pur riconoscendo che solo in circostanze eccezionali ci sarà un contrasto tra quelle esigenze etiche e il senso letterale delle formulazioni normative.

A qualcuno potrebbe sembrare che in pratica non esiste una differenza sostanziale tra le due impostazioni, soprattutto se teniamo conto che —come abbiamo visto nella prima parte di questo studio a proposito di Suárez— non si può assolutamente escludere che in circostanze veramente eccezionali si verifichi una mutatio materiae[47]. Si potrebbe quindi pensare che alla fin fine si ottiene lo stesso risultato dicendo che la legittima difesa è un'azione che, a causa del suo rapporto alla virtù della giustizia, è essenzialmente diversa dell'omicidio, oppure dicendo che è un omicidio giustificato, o un'eccezione alla norma dell'omicidio. Ma in realtà esistono notevoli differenze.

Parlare di eccezioni —o dell'epicheia come eccezione— fa pensare non alla non assolutezza di alcune formulazioni linguistico-normative, ma alla non assolutezza delle esigenze etiche in quanto tali o, se si vuole, all'impossibilità di esprimere attraverso il linguaggio umano esigenze delle virtù etiche che siano allo stesso tempo concrete e universalmente valide. Più chiaramente, la logica delle eccezioni nega la possibilità di descrivere in astratto tipi di azione che hanno una moralità intrinseca assoluta, negazione che presuppone l'idea inaccettabile —della quale abbiamo già parlato— che l'oggetto morale di un'azione non sia né possa essere altro che la sua descrizione fisica.

Un esempio può illustrare il problema. Alcuni autori pensano che la morale cattolica intenda la categoria morale "contraccezione" come il semplice atto fisico di "prendere una pillola anovulatoria" —in realtà, così la intendono loro—, e allora non capiscono che una tale azione possa essere considerata come intrinsecamente cattiva per il suo oggetto, vale a dire, cattiva sempre e dovunque[48]. Ma la morale cattolica non intende l'azione contraccezione in quel modo. L'enciclica Humanae vitae, per esempio, non condanna l'azione "prendere una pillola anovulatoria in sé"; afferma invece che è esclusa "ogni azione che, o in previsione dell'atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione"[49]. E immediatamente dopo, nel nº 15, sostiene la liceità dei mezzi veramente terapeutici che, come effetto indiretto previsto ma non desiderato, possono impedire la procreazione. L'espressione "si proponga come scopo o come mezzo", indica chiaramente che l'azione morale "contraccezione" contiene in ogni caso un "proponimento" contraccettivo, che abbiamo chiamato intenzionalità intrinseca dell'azione, qualunque sia l'ulteriore intenzione dell'agente (il finis operantis della manualistica). L'azione "contraccezione" e l'uso terapeutico di un'anovulatorio sono scelte morali essenzialmente diverse a livello di oggetto morale (finis operis). La loro diversità non deriva dalle intenzioni ulteriori (finis operantis). Se si accettasse invece una descrizione fisicista dell'azione "contraccezione" (contraccezione come mero atto fisico di ingerire una pillola anovulatoria), per distinguerla dall'uso terapeutico di un anovulatorio non ci sarebbe altra via di uscita che ricorrere alle intenzioni ulteriori (finis operantis), ma nel farlo andrebbe distrutta la nozione stessa di oggetto morale, vale a dire, la possibilità che alcune azioni abbiano un'identità etica, definibile in astratto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni o dalle conseguenze, identità etica che non potrà cambiare se l'intenzionalità basica dell'azione si oppone ad una esigenza essenziale di alcuna o alcune virtù etiche (giustizia, castità, ecc). Se si dovesse ricorrere al finis operantis per distinguere azioni che in realtà sono essenzialmente diverse in virtù del loro oggetto (per esempio, contraccezione e uso terapeutico di un anovulatorio), allora si dovrebbe discutere volta per volta anche la moralità di ciascuna delle singole azioni che sono veramente contraccezione in senso morale (negazione dell'intrinsece malum), e così i proporzionalisti avrebbero raggiunto lo scopo che veramente interessa loro, e che peraltro  loro stessi non nascondono. In poche parole: la descrizione fisicista dell'azione consente, prima, una indebita neutralizzazione delle azioni scelte e, dopo, una loro continua ridefinizione sulla base di intenzioni e conseguenze ulteriori[50].

Sullo sfondo c'è un importante problema gnoseologico. Per un razionalista morale, come Kant, la ragione coglie a priori l'elemento razionale universale (che in Kant è formale), e poi procede deduttivamente (applicando il test dell'universalità alle diverse massime di azione). Per un nominalista, esistono solo ile azioni singolari, che sono l'oggetto della volontà del superiore che comanda, vieta o dispensa (e che in linea di principio potrebbe dispensare di tutto). Per il realismo moderato di San Tommaso, invece, la ragione umana ha la capacità di cogliere nel singolare l'universale che in esso si realizza, dopo di che può formulare —mediante un'operazione intellettuale chiamata astrazione— categorie analitiche e regole di comportamento di valore universale. La logica delle eccezioni —e dell'epicheia come eccezione— non è capace di denunciare l'insufficienza del razionalismo morale senza cadere nelle reti del nominalismo etico.

V. CONCLUSIONI

Lungo le pagine precedenti sono state formulate le osservazioni di carattere scientifico che sembrano necessarie per impostare bene il problema dell'epicheia. Come non devo né posso pretendere che tutti condividano tale impostazione scientifica, che forse non è del tutto determinante per la corretta soluzione dei problemi pratici, mi sembra conveniente formulare adesso alcune conclusioni di carattere operativo che rispondano a ciò che è accettato o accettabile da tutti coloro che, muovendosi all'interno della teologia morale cattolica, hanno formulato ipotesi non in contrasto con la dottrina morale della Chiesa.

1. Le esigenze etiche della legge morale naturale, intese in senso rigoroso, e le esigenze de iure divino evangelico non hanno bisogno né ammettono una correzione mediante l'epicheia. Non è pertanto possibile invocare l'epicheia in riferimento alle azioni intrinsecamente cattive né in rapporto agli impedimenti del matrimonio che sono di diritto naturale o di diritto divino, sui quali la Chiesa non ha potere di dispensa. Su questo tutti sono d'accordo: San Tommaso, Suárez e la manualistica. Non si deve confondere la mutatio materiae con l'epicheia (Suárez).

2. Accogliendo la formulazione più larga di Suárez, compito proprio dell'epicheia è dirigere l'applicazione della legge umana quando essa deficit propter universale aliquo modo contrarie. Dobbiamo trovarci pertanto davanti ad un caso concreto che manifestamente non rientra nella legge, perché se in tale caso la legge fosse letteralmente osservata o applicata si agirebbe contra la giustizia o contra il bene comune, in uno dei tre modi indicati da Suárez. Si deve affermare quindi che l'applicazione dell'epicheia deve avere un fondamento morale: gli altiora principia secondo i quali la gnome regola l'azione che non rientra nella legge. In termini tomisti, tali principi superiori sono la communis hominum seu fidelium salutis e la ratio iustitiae. Suárez concede maggiore importanza alla concreta intenzione del legislatore, e quindi in essa dovrebbe essere trovato il fondamento.

3. Penso che si può anche accettare, con Suárez, che "aliquando obligatio legis cessat propter bonum personae particularis", purché si tratti di evitare un danno grave, in qualche modo ingiusto, e soprattutto purché "nulla alia ratio communis boni obliget ad illud inferendum vel permittendum".

4. È un'esigenza del bene comune che le leggi irritanti non possano essere corrette dall'epicheia. Su questo punto tutti sono d'accordo. Sono leggi irritanti gli impedimenti che rendono invalido il matrimonio, anche quelli di diritto ecclesiastico.

5. In maniera più o meno chiara, tutti ammettono che l'epicheia è qualcosa di diverso dell'interpretazione e della dispensa in quanto esse sono atti della potestas regiminis.

6. Pur tra la diversità di impostazioni teologiche, nessuno dei grandi dottori e teologi studiati assimilano l'epicheia alla tolleranza del male, al compromesso, ecc. L'epicheia è "degna di lode" (San Tommaso seguendo Aristotele), è una superiustitia (San Alberto Magno), che è necessario chiamare in causa quando una legge umana deficit propter universale aliquo modo contrarie. L'epicheia è una virtù che sta tra due estremi viziosi: la rigidità legalistica che può arrivare ad essere gravemente lesiva del bene comune, e il lassismo di colui che senza fondamento valido considera lecito per sé ciò che la legge vieta agli altri (logica dell'eccezione).

7. Di fronte a comportamenti che hanno una notevole incidenza sociale o che per qualche altra ragione possiedono importanti dimensioni pubbliche, se non c'è pericolo imminente, è preferibile ricorrere all'autorità competente prima di applicare l'epicheia personalmente.

8. Una cosa diversa è la clemenza, la magnanimità e la benevolenza pastorale da parte dell'autorità, che sono ordinate alla salus animarum. Per la maggioranza dei teologi e dottori cattolici l'epicheia è propria dell'uomo in quanto tale, e quindi non è una virtù propria delle autorità civili o ecclesiastiche.

VI. L’EPICHEIA E IL PROBLEMA DEI FEDELI DIVORZIATI RISPOSATI

1. Premessa dottrinale

Già da alcuni anni sono state avanzate diverse proposte di soluzione per il problema dei fedeli che si trovano in situazioni matrimoniali irregolari. In molti casi tali proposte aggirano punti importanti della dottrina cattolica e, più spesso, presuppongono una nuova comprensione della dottrina cattolica sul matrimonio[51]. Perciò sembra conveniente richiamare brevemente i dati dottrinali sui quali dobbiamo fondare lo studio del nostro problema.

1. La Chiesa considera che l'unità e l'indissolubilità sono proprietà essenziali del matrimonio per diritto naturale. Esse ricevono un'ulteriore conferma e rafforzamento nel matrimonio cristiano.

2. Tutti possono contrarre il matrimonio, se non ne hanno la proibizione dal diritto (CIC, 1058). Il ius connubii è un diritto naturale[52]

3. Per la Chiesa Cattolica l'indissolubilità del matrimonio cristiano genera un vincolo permanente chenon può essere dissolto dai coniugi né dallo Stato. Perciò l'indissolubilità non solo significa che è una colpa moralerompere il vincolo, ma anche che mentre vive il coniuge legittimo tale vincolo costituisce un impedimento di diritto naturale e divino che rende invalido un secondo matrimonio (CIC, 1085 § 1). La Chiesa non può dispensare né ha mai dispensato di tale impedimento se il matrimonio rato è stato consumato (CIC 1141). Che la Chiesa, neppure il Romano Pontefice, non possiede il potere di dissolvere il matrimonio rato e consumato è almeno dottrina cattolica[53]; Billot qualificava tale tesi come de fide catholica e altri autori come proxima fidei[54]. Si tratta di una dottrina più volte ribadita dai Romani Pontefici, in particolare a partire da Gregorio XVI fino ai nostri giorni. Sullo scioglimento del matrimonio non consumato e sul privilegio paulino si vedano i canoni 1142-1150 del CIC.

4. Dal punto di vista esegetico è perfettamente possibile interpretare la clausola matteana come lo ha fatto sempre la Chiesa Cattolica (cf. Bonsirven, Bruce Malina, Vargas-Machuca, ecc). In ogni caso, i testi evangelici considerati complessivamente dimostrano la volontà del Signore di ripristinare l'indissolubilità del matrimonio come era "nel principio", opponendosi alle eccezioni dell'Antico Testamento. La ragione naturale intuisce immediatamente che subordinare l'indissolubilità ad una condizione libera facilmente realizzabile (adulterio) è semplicemente rendere possibile il divorzio in ogni caso. Per questo l'adulterio con promessa di matrimonio è stato considerato per molti secoli come impedimento di crimine, anche se nel CIC del 1983 non lo è più. Se il Signore avesse detto veramente che l'adulterio scioglie il vincolo coniugale, non si vede come avrebbe inteso ripristinare l'originaria indissolubilità del matrimonio.[55].

5. La Chiesa Cattolica ha sempre sostenuto che il matrimonio tra cattolici, anche quando sia cattolica una sola delle parti, è retto dal diritto divino e dal diritto canonico (CIC, 1059). Questa potestà implica la facoltà di stabilire impedimenti, dispense, ecc. salvo il diritto naturale e divino.

6. Chi è consapevole di peccato grave non deve ricevere la Comunione senza premettere la confessione sacramentale[56]. La necessità di essere nello stato di grazia per ricevere l'Eucaristia è senza dubbio di diritto divino (1 Cor 11, 27-29). Sul precetto di premettere anche la confessione sacramentale ci sono opinioni diverse: alcuni ritengono che sia un precetto divino (Sant'Alfonso); altri, un precetto ecclesiastico grave (Noldin, Genicot). In ogni caso sono previste a iure i casi in cui esiste dispensa per non premettere la confessione sacramentale: impossibilità di confessarsi per mancanza di confessore idoneo e necessità grave di ricevere la comunione (pericolo di morte, infamia grave). In questi casi si è tenuto a porre un atto di contrizione perfetta, che include il proposito di confessarsi quanto prima (CIC, 916).

7. Il canone 915 del CIC 1983 include anche i fedeli divorziati risposati[57].

Questi elementi dottrinali determinano la prassi costante e universale della Chiesa Cattolica, fondata sulla Sacra Scrittura, sull'accesso all'Eucaristia da parte dei fedeli divorziati risposati. Tale prassi è stata ricordata recentemente dalla Familiaris consortio, n. 84 e ribadita dal Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1650 e dalla Lettera CDF 14/9/94.

Resta da vedere come è stata invocata l'epicheia a proposito dei fedeli divorziati risposati.

2. Impostazione del problema

Nel 1970 B. Häring si era richiamato all'epicheia riguardo ai coniugi che, con l'aiuto di un pastore, sono arrivati alla convinzione di coscienza sull'invalidità del loro matrimonio[58]. È il cosiddetto caso "di buona fede". In alcune diocesi degli Stati Uniti questa soluzione cominciò ad essere adoperata, ma in seguito fu respinta dalle autorità ecclesiastiche e dalla Santa Sede[59]. Tale soluzione è stata riproposta da Häring nel 1990:

"L'epicheia si pone soprattutto là dove una dichiarazione di nullità fu negata soltanto perché non tutte le prove erano disponibili, mentre gli interessati e, dopo sufficiente riflessione, anche il pastore d'anime, sono convinti che la prima unione fosse fin dall'inizio invalida. Grazie alla virtù dell'epicheia, in tal caso gli interessati sono anche fondamentalmente giustificati a contrarre un secondo matrimonio. E, a mio modo di vedere, il pastore d'anime può pressiedere, con grande discrezione, alla celebrazione delle nozze"[60].

L'epicheia viene richiamata pertanto in riferimento al § 2 del canone 1085 del CIC 1983[61], sulla base di una di essi?) e ciò che può essere provato nel foro esterno davanti al tribunale ecclesiastico competente.

Prima della pubblicazione del CIC del 1983 altri autori avevano prospettato, con sfumature diverse, la possibilità di contrarre un secondo matrimonio senza che sia stata data sentenza di nullità del primo[62]. J.H Provost l'ha riproposta dopo la pubblicazione del CIC del 1983[63]. Altri autori si sono dichiarati contrari a questa soluzione di "foro interno" o di "buona fede"[64].

Anche il n. 3 della Lettera con la quale i Vescovi della provincia ecclesiastica dell'Alto Reno hanno accompagnato nell'ottobre 1994 la Lettera CDF 14/9/94 contiene un riferimento all'epicheia:

"Secondo la dottrina tradizionale della Chiesa la norma generale deve sempre essere riferita alla persona concreta e alla sua situazione individuale, senza che con questo la norma venga annullata. 'Il diritto ecclesiale può fissare solo un ordinamento generalmente valido, non può regolare tutti i singoli casi spesso molto complessi' (Katholischer Erwachsenenkatechismus. Das Glaubensbekenntnis der Kirche, Conferenza Episcopale Tedesca, p. 395). La tradizione dottrinale della Chiesa ha sviluppato pertanto la 'epikeia', la disciplina ecclesiale da parte sua il principio della 'aequitas canonica'. Non si tratta di un annullamento del diritto vigente e della norma che resta valida, ma della sua applicazione in situazioni difficili e complesse secondo 'giustizia e equità', così che si possa rendere giustizia alla singolarità delle diverse persone. Questo non ha nulla a che fare con una cosiddetta 'pastorale della situazione'"

Il richiamo è generico, e non viene indicata quale è la legge ecclesiastica che in questo caso deficit, e pertanto ha bisogno della correzione mediante epicheia. La citazione del Catechismo per Adulti tende a far pensare che tutte le leggi ecclesiastiche deficiunt. Più avanti, nel n. 5 della Lettera viene specificato che non si trattava di un'approvazione della ricezione dell'Eucaristia da parte di questi fedeli, ma "piuttosto di una tolleranza". Infine vienechiarito che il problema di fondo "è la determinazione del rapporto fra norma oggettivamente [e] generalmente valida e decisione di coscienza personale" (n. 6). Sono concetti che erano presenti nella Lettera pastorale e nei Principi fondamentali per l'accompagnamento pastorale di persone con matrimoni falliti pubblicati dai tre Presuli il 10-VII-1993. Il diritto canonico può istituire solo una norma generalmente valida, non può regolamentare tutti i singoli casi[65]. C'è da osservare: anche quando la legge ecclesiastica esprime esigenze del diritto naturale o divino? Si fa cenno anche alla tolleranza[66]; si afferma che non si tratta di "un'autorizzazione ufficiale, formalmente parlando"[67], ma nel contempo il sacerdote esperto che segue il caso "informerà il parroco competente nel caso del permesso di ammissione all'eucaristia"[68]. Viene comunque ricordato che "l'accesso all'eucaristia è un atto pubblicamente e significativamente ecclesiale", e perciò è necessario l'intervento di un sacerdote[69].

Dall'insieme del documento dei Vescovi dell'Alto Reno sembra chiaro che la loro proposta —e quindi il richiamo all'epicheia— non si limita al cosiddetto caso di buona fede, ma comprende anche altre ipotesi.

3. Discussisone del caso di “buona fede”

Come si è detto, gli autori che hanno invocato l'epicheia in termini concreti e non generici, lo hanno fatto in riferimento al cosiddetto caso di "buona fede". La legge ecclesiastica la cui applicazione dovrebbe essere corretta dall'epicheia sarebbe allora il § 2 del canone 1085. Questo è il problema che consideriamo adesso.

Una questione previa è quella di sapere se il § 2 del canone 1085 è una legge irritante, giacché tutti sono d'accordo nell'affermare che il bene comune richiede che le leggi irritanti non possano essere corrette mediante l'epicheia. Se non sbaglio, mentre il § 1 di quello stesso canone è una legge irritante, contenente un impedimento dirimente di diritto naturale e divino ("invalide matrimonium attentat"), mi sembra che il § 2 non è in rigore una legge irritante. Esso dice infatti che "non ideo licet aliud contrahere, antequam de prioris nullitate aut solutione legitime e certo constiterit", senza cenno alcuno all'invalidità. Ciò si spiega perché solo la validità del primo matrimonio secondo la veritas rei può determinare l'invalidità del secondo. Tuttavia siamo davanti ad una legge assai importante, perché dato che si deve presumere che il primo matrimonio è stato valido (CIC, 1060), si deve anche presumere che le persone (o una di esse) che intendono contrarre un secondo matrimonio sono inabili, e allora la legge ecclesiastica esige giustamente che ci sia la certezza secondo diritto che non esiste un impedimento dirimente non dispensabile, quale è quello del CIC 1085 § 1. Siamo molto vicini a quanto detto da Suárez: "inhabilitas per legem inducta non potest restitui per modum epiikiae, quia epiikia ad summum potest conducere ad excusationem obligationis: ad dandam autem potestatem quam homo non habet, aut restituendam ablatam, non sufficit, quia ad hoc requiritur positivus actus qui tunc non fit, nec a superiore, nec ab aliquo qui vim habeat restituendi potestatem ablatam vel auferendi inhabilitatem inductam"[70]. Solo che qui non siamo propriamente di fronte a una "inhabilitas per legem inducta", ma ad una "inhabilitas" per legge presunta. Comunque, penso che in rigore il § 2 del canone 1085 non è una legge irritante. Ciò non significa automaticamente che la sua applicazione può essere corretta dall'epicheia, ma semplicemente che è legittimo porsi la domanda se tale legge può in alcuni casi essere corretta dall'epicheia.

Condizione sine qua non per poter richiamarsi legittimamente all'epicheia è che ci sia una situazione nella quale il § 2 del canone 1085 deficiat propter universale aliquo modo contrarie. Vale a dire, si deve trattare di un caso che manifestamente non rientra nel § 2 del canone 1085, e ciò sarebbe possibile in una di questre tre ipotesi: a) che l'osservanza del § 2 del canone 1085 risultasse contraria al bene comune dei fedeli; b) che imponesse qualcosa "inhumana et graviora quam humana conditio patiatur vel quam ratio communi boni postulet"[71]; c) che fosse manifesto che il legislatore, pur potendo obbligare anche in quel caso, non ha inteso farlo.

 

Esaminiamo separatamente le tre ipotesi.

Per quanto riguarda la prima ipotesi [a)], non vedo che esista nessun caso in cui l'osservanza del § 2 del canone 1085 possa nuocere contrarie il bene comune dei fedeli. Tale canone intende assicurare che in una materia di estrema importanza, per diritto naturale e per diritto divino, sia raggiunta la veritas rei, in modo da evitare unioni adulterine. Inoltre tale canone garantisce il sacramento e molte volte anche il diritto dell'altra parte e dei figli contro l'arbitrarietà soggettiva, assicura la certezza del diritto in una materia di grande incidenza sociale e, infine, attraverso di esso la Chiesa adempie il dovere di tutelare una realtà ecclesiale e pubblica quale è il matrimonio cristiano.

Per quanto riguarda la terza ipotesi [c)], considerato il § 2 del canone 1085 nella sua espressione letterale e nel suo inserimento nell'ordinamento canonico, non sembra che esistano casi che la mente del legislatore intenda lasciare al giudizio privato. Recentemente il Romano Pontefice, al quale spetta il supremo potere legislativo e giudiziario nella Chiesa, ha espresso la sua mens:

"Ove pertanto sorgano dubbi sulla conformità di un atto (per esempio, nel caso specifico di un matrimonio) con la norma oggettiva, e conseguentemente venga posta in questione la legittimità o anche la stessa validità di tale atto, il riferimento deve essere fatto al giudizio correttamente emanato dalla legittima autorità (cfr. can. 135 § 3), e non invece ad un preteso giudizio privato, tanto meno ad un convincimento arbitrario del singolo. È principio, questo, tutelato anche formalmente dalla legge canonica, che stabilisce: 'Quamvis prius matrimonium sit irritum aut solutum qualibet ex causa, non ideo licet aliud contrahere, antequam de prioris nullitate aut solutione legitime et certo constiterit' (can. 1085 § 2). Si situerebbe quindi fuori, ed anzi in posizione antitetica con l'autentico magistero ecclesiastico e con lo stesso ordinamento canonico —elemento unificante ed in qualche modo insostituibile per l'unità della Chiesa— chi pretendesse di infrangere le disposizioni legislative concernenti la dichiarazione di nullità di matrimonio. Tale principio vale per quanto riguarda non soltanto il diritto sostanziale, ma anche la legislazione di natura processuale. Di questo occorre tener conto nell'azione concreta, avendo cura di evitare risposte e soluzioni quasi di 'foro interno' a situazioni forse difficili, ma che non possono essere affrontate e risolte se non nel rispetto delle vigenti norme canoniche. Di questo soprattutto devono tener conto quei Pastori che fossero eventualmente tentati di distanziarsi nella sostanza dalle procedure stabilite e confermate nel Codice. A tutti deve essere ricordato il principio per cui, pur essendo concessa al Vescovo diocesano la facoltà di dispensare a determinate condizioni da leggi disciplinari, non gli è consentito però di dispensare 'in legibus processualibus' (can. 87 § 1)"[72].

La mente del legislatore è assolutamente chiara al riguardo, e la chiarezza delle parole usate mette in luce che si tratta di una questione di massima importanza per il bene comune dei fedeli. D'altra parte, come succede anche negli ordenamenti civili, l'infrazione delle norme processuali è quasi sempre sinonimo di ingiustizia o, almeno, equivale alla privazione dalle garanzie che il diritto stabilisce in favore dei singoli e dell'intera comunità.

Consideriamo infine la seconda ipotesi [b)], per la quale si potrebbe considerare che un caso concreto non rientra nella legge se l'osservanza di questa implica un danno molto grave (pericolo di morte, ecc.), di fronte al quale si ritiene comunemente che una legge umana non obblighi, oppure un danno personale non richiesto dal bene comune. Qui occorre procedere ad alcuni chiarimenti. Come nota il Gaetano, perché sia moralmente possibile ricorrere all'epicheia il difetto della legge deve procedere dalla sua universalità: "quia causa defectus eius, ad hoc ut aequitas habeat locum, non est quaecumque, sed sola ista, scilicet si propter universale deficit; hoc est, ideo deficit quia quod universaliter statutum est in hoc particulari casu deficit"[73]. Questo significa che non è possibile allegare che in un caso concreto l'unità e indissolubilità del matrimonio ha delle esigenze difficili. Neppure basta che la mancata sentenza di nullità da parte di un tribunale ecclesiastico non risponda alle attese dell'attore o della difesa: questo accade sempre, poiché altrimenti né l'attore avrebbe intrapreso la causa né l'avvocato avrebbe accettato il ruolo di difensore. Sarebbe lecito richiamarsi all'epicheia soltanto se, a causa di circostanze eccezionali non previste o non prevedibili dal legislatore, un matrimonio ritenuto nullo dai coniugi o da uno di essi non potesse trovare in foro esterno dimostrazione della sua nullità, venendosi a creare una situazione nella quale a una persona abile secondo la veritas rei viene negato l'esercizio dello ius connubii, il che è certamente un danno notevole.

Situazioni di questo tipo potrebbero crearsi in paesi dove, a causa di eccezionali circostanze politiche, i cattolici restano isolati, senza poter comunicare con le autorità ecclesiastiche. Mi sembra che a questo tipo di situazioni si riferisce la risposta dell'allora Santo Uffizio del 27 gennaio 1949, in cui si stabiliva che erano validi i matrimoni dei cinesi residenti nella parte occupata dai comunisti che, da una parte, non potevano senza grave incomodo osservare alcuni impedimenti ecclesiastici e, dall'altra, non potevano astenersi o diferire la celebrazione del matrimonio. La risposta precisava che doveva trattarsi di impedimenti dei quali la Chiesa normalmente dispensa. Se non sbaglio, attualmente sono in vigore procedimenti speciali per casi analoghi, vale a dire, casi in cui la nullità è assai manifesta, ma non è possibile istruire la causa: si veda la Declaratio de competentia Dicasteriorum Curiae Romanae in causis nullitatis matrimonii post Cost. "Regimini Ecclesiae Universae", pubblicata dalla Segnatura Apostolica il 22 ottobre 1970[74].

Tenendo conto delle norme stabilite nel CIC del 1983 (cann. 1536 § 2 e 1679) e nel CCEO (cann. 1217 § 2 e 1365) circa la forza probante delle dichiarazioni delle parti nei processi di nullità[75], non riesco ad immaginare altre situazioni che, per le loro eccezionali circostanze, possano non rientrare nelle attuali norme canoniche. Come si è detto, la convinzione soggettiva delle parti non autorizza a pensare che la legge ecclesiastica deficit propter universale in quel caso. Affermare il contrario sarebbe concedere un primato assoluto alla convinzione soggettiva riguardante la propria causa, come se essa fosse una via di accesso alla veritas rei molto più sicura che il processo giudiziario o, quando sia il caso, il processo documentale (cann. 1686-1688). È vero che si presuppone la buona fede delle parti, ma è anche vero, da un canto, che se la loro convinzione soggettiva è ben fondata non si vede perché le parti e la difesa non riescono a trasmetterla ai giudici e, dall'altro, che una cosa è conoscere un fatto interno (l'eventuale vizio di consenso) e un'altra sapere come qualificarlo giuridicamente[76]. Resta sempre vera l'avvertenza di Pio XII: "Quanto alle dichiarazioni di nullità dei matrimoni [...] chi non sa poi che i cuori umani sono, in non rari casi, pur troppo proclivi [...] a studiare di liberarsi dal vincolo coniugale già contratto?"[77].

Che concedere alle parti interessate una specie di facoltà di autodichiarazione di nullità sia una proposta giuridicamente e moralmente inaccettabile[78], viene in qualche modo evidenziato dal fatto che le stesse proposte in favore del caso "di buona fede" esigono che debba intervenire un sacerdote esperto, che poi "informerà il parroco competente nel caso del permesso di ammissione all'Eucaristia"[79]. Altri autori, come F. Bersini, propongono la creazione in ogni diocesi di un organismo che consigli il Vescovo sulla risposta da dare nel foro interno[80]. Non si capisce perché un sacerdote o un organismo diocesano potrebbe raggiungere una veritas rei che invece non potrebbe essere raggiunta da un tribunale ugualmente diocesano o da un tribunale della Santa Sede. Tutto fa pensare che si tratta semplicemente del tentativo, ben intenzionato, di risolvere un problema difficile aggirando il diritto vigente nella Chiesa.

C'è da aggiungere infine che persone della competenza e dell'esperienza dell'attuale Decano della Rota Romana ritengono che, con le attuali norme canoniche, non si dà praticamente il caso che un matrimonio nullo non possa trovare in ambito giudiziario dimostrazione della sua nullità[81]. Così viene a cadere il presupposto che sta alla base del problema stesso.

Sappiamo che l'indissolubilità del matrimonio, come realtà e come valore, si sta perdendo in molti ambienti delle nostre società, anche in paesi di lunga tradizione cristiana. Ciò pone nella pratica problemi pastorali veramente difficili e dolorosi, che sono però qualcosa di molto diverso dal verificarsi di un difetto della legge a causa della sua universalità, unica circostanza che permeterebbe di chiamare in causa l'epicheia. D'altra parte, questa situazione sociale e culturale fa sì che il bene comune della Chiesa e della società civile richieda una cura sempre più attenta e ferma dell'indissolubilità del matrimonio. I richiami generici all'epicheia, intesa come una specie di benevola e non sufficientemente fondata mitigatio juris, sono estranei alla tradizione teologico-morale cattolica sull'epicheia. Si ritrova soltanto in qualche esponente della tradizione volontarista, che in un contesto fortemente polemico gioca sull'idea che si può comandare tutto e di tutto si può dispensare (si veda sopra sezione III, 4)[82]. Oggi tale concetto di epicheia sembra venir riproposto in quanto risulta funzionale ad un concetto di coscienza morale che la Chiesa non può accettare[83].

Sulla base delle considerazioni fin qui svolte, mi sembra poter affermare che l'epicheia, così come è stata intesa nella tradizione teologico-morale cattolica, non autorizza a contrarre un secondo matrimonio contravvenendo il § 2 del can. 1085 né autorizza ad un sacerdote cattolico ad assistere. Neppure autorizza a regolarizzare un secondo matrimonio contratto civilmente o senza la forma canonica, senza che previamente venga stabilito conforme al diritto canonico che le persone coinvolte sono abili a tale scopo. Da tale punto di vista non mi sembra che ci siano ragioni fondate per cambiare quanto detto in Familiaris consortio, n. 84, Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1650 e nella Lettera CDF 14/9/94.

Per quanto riguarda non tanto la validità della seconda unione, ma la possibilità di accedere all'Eucaristia in situazioni particolari, proponiamo in seguito alcune considerazioni.

4. Discussione di alcuni problemi particolari riguardanti la recezione dei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia

Su questo particolare aspetto del problema mi sembra che sia conveniente procedere ad un chiarimento iniziale. Alcuni autori hanno scritto che, dato che la Chiesa non dice esplicitamente che i fedeli divorziati risposati si trovano in stato di peccato mortale né li qualifica come peccatori pubblici, non si capisce perché non possono ricevere l'Eucaristia[84]. Coloro che così argomentano sembrano non voler capire il significato del linguaggio impiegato dalla Chiesa. Parlare dello stato di grazia o di peccato di un'anima è cosa brutta e assai complicata. De internis neque Ecclesia iudicat. Per rispetto e per prudenza la Chiesa ha voluto impiegare un linguaggio più delicato, il cui significato è tuttavia univoco. Quando il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che questi fedeli "si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio. Perciò essi non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione"[85], è perfettamente chiaro che cosa si intende affermare, soprattutto se si tiene presente che già da Sant'Agostino il peccato viene definito come "factum vel dictum vel concupitum aliquid contra legem Dei aeternam"[86]. Per delicatezza e prudenza si preferisce non affermare che sono in peccato mortale, ma si intende dire che per quanto ci è dato sapere questi fedeli sono da considerarsi a tutti gli effetti esterni e sacramentali come persone che vivono in una situazione di peccato. L'ultimo giudizio certamente spetta solo a Dio. È come se, per rispetto e per prudenza, di fronte ad una persona che ha commesso un adulterio o un omicidio si afferma che tale azione lesiona gravemente la legge di Dio, anziché dire che "sei in stato di peccato mortale". Ma la sostanza è la stessa

Molti autori si pongono esclusivamente il problema della ricezione dell'Eucaristia da parte di questi fedeli. Alla luce di quanto è stato detto sopra (vedi sezione IV, 1, n. 6) il vero problema è se questi fedeli possono ricevere il sacramento della Penitenza, vale a dire, se sono in grado di ricevere validamente l'assoluzione sacramentale. Si tenga conto che, oltre alla situazione matrimoniale irregolare, alcuni fedeli possono aver commesso in passato altre colpe, forse gravi o gravissime (aborto, gravi ingiustizie in campo professionale, ecc.). Sulla necessità dello stato di grazia per ricevere l'Eucaristia non è possibile richiamarsi all'epicheia, perché tale necessità risponde al diritto divino ed sta nella natura stessa delle cose. Il diritto e la morale cattolica prevedono esplicitamente quali sono i casi in cui è possibile non premettere la confessione sacramentale, casi in cui è necessario porre un atto di contrizione perfetta che include il proposito di confessarsi quanto prima[87]. Senza contrizione e proposito serio e sincero di evitare il peccato l'assoluzione non è valida.

Il vero problema neppure è se il ministro che distribuisce l'Eucaristia deve negarla ai fedeli divorziati risposati che si accostano ad essa. Il problema non è frequente. Perché si ponga sono necessari due presupposti: a) che il ministro che distribuisce l'Eucaristia sappia, senza violazione del sigillo sacramentale, lo stato in cui versano tali fedeli; b) che questi fedeli si accostino all'Eucaristia. Nelle città e nei paesi di un certo numero di abitanti le due condizioni di solito non si danno insieme. In ogni caso, la morale cattolica insegna come deve comportarsi il sacerdote nelle diverse ipotesi, e su questo l'epicheia non introduce nessun cambiamento.

Il vero problema deve essere posto in termini oggettivi, vale a dire, secondo la veritas rei. I fedeli divorziati risposati, oggettivamente, sono in condizioni di poter ricevere l'Eucaristia, sì o no? Se in coscienza ritengono di poter riceverla, tale coscienza è retta o erronea? Su questo punto la dottrina della Chiesa è chiara, e secondo quanto è stato detto fino a questo momento non sembra che l'epicheia possa fondare alcun cambiamento.

Ritengo che dal punto di vista dell'epicheia, che è l'oggetto di questo studio, non ci sia altro da aggiungere. Sarebbe da approfondire l'applicazione pratica della prassi approvata per il foro interno (tamquam soror et frater), nonché alcuni casi estremi in cui sarebbe possibile ricorrere alla Penitenzeria Apostolica, non per poter procedere lecitamente a contrarre una seconda unione né per tenerla per valida nel foro esterno se è stata già contratta, ma per chiarire la situazione interna della coscienza delle persone coinvolte. Per casi estremi non intendo situazioni molto dolorose, né persone che insistono molto, ecc., ma situazioni in cui sembra che il primo matrimonio sia stato manifestamente invalido[88], anche se adesso, 30 o 40 anni dopo, non è possibile istruire una causa di nullità. In ogni caso, si tratta di situazioni che possono essere risolte con i criteri normali della morale cattolica. La difficoltà di queste situazioni non è dovuta al difetto di una legge a causa della sua universalità, e pertanto tali situazioni non sono oggetto di epicheia.

Vorrei aggiungere un'ultima considerazione. Nello studio di casi estremi occorre molta prudenza. Quando situazioni veramente eccezionali, che vanno studiate dalla Penitenzeria senza ledere il sigillo sacramentale, passano alla carta stampata (articoli teologici, dichiarazioni da parte di moralisti u organismi ecclesiali, ecc.), ciò che inizialmente era un problema pastorale di applicazione delle norme morali a casi particolarmente difficili, diventa un problema dottrinale che mette in discussione la dottrina morale della Chiesa, generando scandalo e confusione per i fedeli.



[1] Pubblicato su «Acta Philosophica» VII (1998) 65-88.
[2] Il Cursus Theologicus  vide la luce tra il 1667 e il 1675. A noi interessa l’arbor praedicamentalis virtutum, che chiude il volume sesto del Cursus. Questo volume è opera del P. Juan de la Anunciación O.C.D. Qui citiamo l’edizione pubblicata a Parigi e a Bruxelles nel 1878. Il lettore interessato può rinvenire utili notizie sul Cursus  nello studio del P. Enrique Del Sagrado Corazón, O.C.D., Los Salmanticenses. Su vida y su obra, Editorial de Espiritualidad, Madrid 1955. La traduzione alla lingua italiana è nostra.
[3] Usiamo l’edizione veneta del 1750. La traduzione alla lingua italiana è nostra.
[4] Cursus Theologicus, ed. cit., vol. VI, p. 445.
[5] «(...) et diffinitur a Cajetano hoc modo: Aequitas est directio legis ubi deficit propter universale» (ibidem).
[6] Ibid., p. 446.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] «Ob majus bonum quod ex legis jam latae firmitate et veneratione communitati accrescit: cui firmitati, dubium non est, aliqualiter derogari per exceptiones. Unde epikeia utens, debet hoc totum considerare, tuncque solum contra verba legis operari, quando illorum observatio, attentis omnibus, majus infert nocumentum bono communi, quam legis praetermissio. Quocirca caute procedere oportet, quia id non saepe contingit» (Ibidem).
[10] Ibidem.
[11] Ibid., pp. 446-447.
[12] Volume III, nn. 41-45, p. 54 dell’edizione veneta del 1750. Sull’epicheia nel Cursus Theologiae Moralis si veda Sala, G.B., Ist die Epikie auf das natürliche Sittengesetz anwendbar? Ein Versuch, einen Text des hl. Alfons von Liguori zu klären, «Theologie und Philosophie» 75/2 (2000) 379-383.
[13] Cfr. Cursus Theologiae Moralis, vol. III, n. 42, p. 54.
[14] Cfr. ibidem.
[15] Cfr. ibid., nn. 44-45.
[16] Sant’Alfonso Maria De’ Liguori, Theologia Moralis, lib. I, tract. II, cap.IV, III, n. 201; editio nova cura et studio L. Gaudé, Typographia Vaticana, Romae 1905, vol. I, p. 182.
[17] P. Scavini, Theologia Moralis Universa ad mentem S. Alphonsi M. de Ligorio, lib. I, tract. II, disp. I, cap. VIII, n. 262, ed. Oliva, Mediolani 1865, vol. I, pp. 200-201. Nella Prefazione alla prima edizione della Theologia Moralis, riferendosi alle fonti utilizzate, scrive Sant’Alfonso: “Alia explicanda, alia addenda censui ex diversis probatorum doctorum auctoritatibus, nimirum S. Thomae, Lessii, Sanchez, Castropalai, Lugo, Laymann, Bonacina, Viva, Croix, Roncaglia et aliorum, praesertim Salmanticensium, qui communi aestimatione moralem hanc scientiam diffuse et egregie pertractant, quosque ipse inter ceteros frequentius familiares habui; ita ut fere omnia, quae iidem tot libris latiore calamo in examen revocant, breviter concinnata hic invenias, et praecipue quae ad praxim faciunt” (citato da L. Gaudé, nella prefazione dell’edizione della Theologia Moralis del 1905).
[18] H. Noldin, Summa Theologiae Moralis, 28ª ed., F. Rauch, Oeniponte-Lipsiae 1941, vol. I, n. 160.
[19] Ibidem.
[20] Cfr. D.M. Prümmer, Manuale Theologiae Moralis secundum principia S. Thomae Aquinatis, 11ª ed., Herder, Friburgi Br. — Barcinone 1953, vol. I, nn. 231-233.
[21] Ibid., n. 231.
[22] Cfr. ibid., n. 233 e soprattutto n. 156.
[23] Cfr. R. Egenter, Über die Bedeutung der Epikie im sittichen Leben, in "Philosophisches Jahrbuch", 53 (1940), pp. 115-127.
[24] Cfr. J. Giers, Epikie und Sittlickeit. Gestalt und Gestalwandel einer Tugend, in R. Hauser — F. Scholz, Der Mensch unter Gottes Anruf und Ordnung (Festgabe Müncker), Düsseldorf 1958, pp. 51-67.
[25] Cfr. E. Hamel, La vertu d'épikie, in "Sciences Ecclésiastiques" 13 (1961) 35-56; Fontes greci doctrinae de epikeia, in "Periodica de re morali, canonica, liturgica" 53 (1964) 169-185; L'usage de l'épikie, in "Studia Moralia" 3 (1965) 48-81.
[26] J. Fuchs, Epikeia circa legem moralem naturalem?, in “Periodica de re morali, canonica, liturgica”, 69 (1980), pp. 251-270; si veda anche il capitolo VIII, Eccezioni — Epikeia e norme morali di legge naturale, del volume Etica Cristiana in una società secolarizzata, Piemme, Roma 1984, pp. 139-155.
[27] Cfr. G. Virt, Epikie und sittliche Selbstbestimmung, in D. Mieth (hrsg.), Moraltheologie im Abseits? Antwort auf die Enzyklika "Veritatis splendor", Herder, Freiburg-Basel-Wien 1994, pp. 203-220; e Die vergessene Tugend der Epikie, in TH. Schneider (hrsg.), Geschieden, Wiederverheiratet. Abgewiesen? Antworten der Theologie, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1995, pp. 267-283. Questo autore ha pubblicato un importante studio storico sul tema: Epikie — verantwortlichen Umgang mit Normen. Eine historisch-systematische Untersuchung zu Aristoteles, Thomas von Aquin und Franz Suarez, Grünewald, Mainz 1983. Per un breve riassunto delle tesi principali, Cfr. G. Virt, voce Epiqueya, in H. Rotter — G. Virt, Nuevo diccionario de moral cristiana, Herder, Barcelona 1993, pp. 177-179.
[28] Cfr. M. Wittmann, Die Ethik des hl. Thomas von Aquin (München 1933), ristampa anastatica New York — Frankfurt 1963, p. 120.
[29] Cfr. Über die Bedeutung..., cit. pp. 120 ss.
[30] Cfr. La vertu d'épikie, cit., pp. 59-60.
[31] "S. Thomas apparaît moins libéral que S. Albert en ce qui concerne l'usage de l'épikie (...) S. Thomas n'a pas réussi à valoriser entièrement la vertu d'épikie. Il y a chez lui une sorte d'hiatus entre doctrine et application, la première étant plus large que la seconde. D'une part, il nous offre une doctrine ample et dynamique, d'inspiration nettement aristotélicienne, sur la nature et le fondement de l'épikie. Il a su l'exprimer en des formules heureuses et définitives, que les rénovateurs ne manqueront pas d'utiliser et de développer. D'autre part, quand il passe au domaine de l'application il adopte une attitude précautionneuse. Il semble mal se défendre contre une certaine crainte que l'épikie nuise à la majesté de la loi ou à l'autorité du legislateur. On sent poindre également une certaine méfiance à l'égard du jugement du subordonné. Cela serait dû, selon Wittmann, à una influence platonicienne” (E. Hamel, L’usage de l’épikie., cit., pp. 57.59-60).
[32] Ibid., p. 67.
[33] Cfr. G. Virt, voce Epiqueya, cit., p. 178.
[34] Cfr. Ibidem.
[35] Cfr. Ibidem.
[36] Cfr. Ibid., pp. 178-179.
[37] Cfr. Ibid., p. 179.
[38] Argomentano in questa linea, per esempio, H. Lepargneur, Os conceitos da "Veritatis splendor", in "Revista Eclesiastica Brasileira", 213 (1994), pp. 19-20; K. Hilpert, Glanz der Wahrheit: Licht und Schatten, in "Herder Korrespondenz", 47 (1993), pp. 626-627; J. Fuchs, Das problem Todsünde, in "Stimmen der Zeit", 212/2 (1994), p. 79.
[39] Cfr. G. Virt, Epikia und sittliche Selbstbestimmung, cit., pp. 213-218.
[40] D'ora in avanti verrà citata Lettera CDF 14/9/1994.
[41] Cfr. G. Virt, Epikie und sittliche Selbstbestimmung, cit., p. 204, e Die vergessene Tugend der Epikie, cit., p. 274.
[42] J. Fuchs, Etica Cristiana in una società secolarizzata, cit., pp. 143-144.
[43] Cfr. A. Rodríguez Luño, "Veritatis splendor" un anno dopo. Appunti per un bilancio (II), in "Acta Philosophica", 5 (1996), pp. 47-75.
[44] Vizio contro il quale previene l'enciclica Veritatis splendor:"Per poter cogliere l'oggetto di un atto che lo specifica moralmente occorre quindi collocarsi nella prospettiva della persona che agisce. Infatti, l'oggetto dell'atto del volere è un comportamento liberamente scelto. In quanto conforme all'ordine della ragione, esso è causa della bontà della volontà, ci perfeziona moralmente e ci dispone a riconoscere il nostro fine ultimo nel bene perfetto, l'amore originario. Per oggetto di un determinato atto morale non si può, dunque, intendere un processo o un evento di ordine solamente fisico, da valutare in quanto provoca un determinato stato di cose nel mondo esteriore. Esso è il fine prossimo di una scelta deliberata, che determina l'atto del volere della persona che agisce" (Giovanni Paolo ii, Enc. Veritatis splendor, n. 78).
[45] Cfr. su questo problema S. Tommaso D'Aquino, Somma teologica, I-II, q. 18, a. 5, ad 3.
[46] Critica della ragione pratica, 9ª ed., Laterza, Roma-Bari 1966, pp. 79-80.
[47] Cfr. la sezione III, 5.1 della prima parte.
[48] Cfr. R. McCormick, Geburtenregelung als testfall der Enzyklika, in D. Mieth (hrsg.), Moraltheologie im Abseits?..., cit., p. 272.
[49] Paolo vi, Enc. Humanae vitae, n. 14.
[50] Si veda a questo proposito l'editoriale La recezione della "Veritatis splendor" nella letteratura  teologica, in "L'Osservatore Romano", 20-V-1995, p. 1.
[51] Per una visione di insieme, si veda B. Petrà Il matrimonio può morire? Studi sulla pastorale dei divorziati risposati, EDB, Bologna 1996, capitoli 2º e 3º della Prima Parte. Si veda anche U. Navarrete, Indissolubilitas matrimonii rati et consummati. Opiniones recentiores et observationes, in "Periodica" 58 (1969) 415-489.
[52] Perciò "la retta risoluzione [delle cause di nullità del matrimonio] tende a che nel miglior modo possibile sia provveduto così alla santità e alla fermezza del matrimonio, come al naturale diritto dei fedeli ['niuna legge umana può togliere all'uomo il diritto naturale e primitivo del coniugio' (insegnavano Leone XIII e Pio XI)], tenendo nel debito conto il bene comune della umana società e il bene privato dei coniugi" (Pio xii, Discorso alla Rota Romana, 3 ottobre 1941, n. 1: AAS 33 (1941) 421-426).
[53] Cfr. lo studio prima citato di U. Navarrete; si veda anche P. Adnès, El matrimonio, Herder, Barcelona 1979, p. 192.
[54] Cfr. U. Navarrete, Indissolubilitas..., cit. pp. 448-449.
[55] Sul piano dei dati di fatto va notato che l'esperienza delle chiese orientali non cattoliche dimostra che il principio dell'eccezione è animato da una dinamica intrinseca che tende al progressivo e inarrestabile ampliamento. Le chiese orientali non si limitano alla clausola matteana, perché ammettono molte altre cause di divorzio; alle volte basta il consenso dei coniugi. Tutto ciò è stato documentato da L. Bressan, Il divorzio nelle Chiese orientali. Ricerca storica sull'atteggiamento cattolico, EDB, Bologna 1976.
[56] Cfr. CIC 916; Concilio Tridentino, sess. XXIII, Dz-Schö. 1646-1647, 1661; Cfr. anche Dz-Schö. 2058-2059 (proposizione condannate da Alessando VII).
[57] Cfr. Communicationes 13 (1981) 412 e 15 (1983) 194.
[58] Cfr. B. Häring, Internal Forum Solutions to Insoluble Marriage Cases, in "The Jurist" 30 (1970) 21-30.
[59] Cfr. Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede del 11 aprile 1973.
[60] B. Häring, Pastorale dei divorziati.... cit., p. 78. Anche G. Virt si richiama esplicitamente all'epicheia: Die vergessene der Epikie, cit., pp. 267-283.
[61] "Quamvis prius matrimonium sit irritum aut solutum qualibet ex causa, non ideo licet aliud contrahere, antequam de prioris nullitate aut solutione legitime et certo constiterit".
[62] Cfr. D. Staffa, De celebratione alterius matrimonii absque sententia de nullitate prioris, in "Apollinaris" 30 (1957) 471-472; U. Navarrete, Conflictus inter forum internum et externum in matrimonio, in Investigationes theologico-canonicae, Roma 1978, pp. 338-40; F.J. Urrutia, The 'Internal Forum Solution'. Some Comments, in "The Jurist" 40 (1980) 137-140.
[63] Internal Forum Marriage: Reflections on a Study by Urban Navarrete, in Magister Canonistarum, Salamanca 1994, pp. 199-214.
[64] Cfr. M.F. Pompedda, La questione dell'ammissione ai sacramenti dei divorziati civilmente risposati. Annotazioni circa alcuni articoli di stampa, in "L'Osservatore Romano", 13-IX-1987; ID., La Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede circa i fedeli divorziati risposati. Problematiche canonistiche, "L'Osservatore Romano" 18-XI-1994; W.E. May, Las opiniones del padre B. Häring sobre la pastoral de los divorciados vueltos a casar, in "L'Osservatore Romano", ed. spagnola 22-III-1991; C. Bresciani, La pastorale dei divorziati risposati in recenti pubblicazioni, in "La Famiglia" 152 (1992) 5-12; J.M. Pommarès, La coordination des fors interne et externe dans l'ordonnacement canonique actuel, Roma 1993, pp. 102-103; P. Bianchi, Nullità di matrimonio non dimostrabili. Equivoco o problema pastorale?, in "Quaderni di Diritto Ecclesiale" 6 (1993) 280-297; J. Llobell, Foro interno e giurisdizione matrimoniale canonica, in "Rivista Diocesana Torinese", febbraio 1996, pp. 1-22.
[65] Lettera, IV.
[66] Principi, II, 2.
[67] Principi, IV, 4.
[68] Principi, IV, 7.
[69] Principi, IV, 4.
[70] F. Suárez De Legibus..., cit., lib. V, cap. 23, p. 519.
[71] F. Suárez, De Legibus..., cit., Lib. VI, cap. 7, p. 33. In questa seconda ipotesi rientrebbe quanto affermato da Suárez sul bene particulare di una persona: "non solum posse cessare obligationem legis quando in particulari eventu esset contra bonum commune servare legem, sed etiamsi sit tantum contra bonum particularis personae, dummodo sit nocumentum grave et nulla alia ratio communis boni obliget  ad illud inferendum ver permittendum; nam tunc justitia vel charitas jubet evitare tale nocumentum proximi, cui non potest lex humana rationabiliter opponi" (Ibid., p. 34).
[72] Giovanni Paolo II, Discorso alla Rota Romana, 10-II-1995, n. 9.
[73] Commento all'art. 1º della quaestio 120 della Secunda Secundae, ed. Leonina della Summa Theologiae, pp. 468-469.
[74] Cfr. I. Gordon — Z. Grocholewski, Documenta recentiora circa rem matrimononialem et processualem, vol. I, Romae 1977, pp. 1252-1259. Cfr. anche R. L. Burke, La procedura amministrativa per la dichiarazione di nullità del matrimonio, in VV.AA., I procedimenti speciali in diritto canonico, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992, pp. 93-105.
[75] Cfr. M. F. Pompedda, Il valore probativo delle dichiarazioni delle parti nella nuova giurisprudenza della Rota Romana, in "Ius Ecclesiae" 5 (1993) 437-468; J. Llobell, Foro interno e giurisdizione matrimoniale canonica, cit.
[76] Cfr. M. F. Pompedda, La Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede..., cit.
[77] Pio XII, Discorso alla Rota Romana, 3-X-1941, n. 2.
[78] Nella sua lettera a The Tablet (26-X-1991) il Card. J. Ratzinger, parlava in questo senso della "contraddizione intrinseca del risolvere in foro interno qualcosa che per natura corrisponde al foro esterno".
[79] Vescovi Dell'Alto Reno, Principi, cit., IV, 7.
[80] Cfr. F. Bersini, Il diritto canonico matrimoniale. Commento giuridico-teologico-pastorale, 4ª ed., Leumann, Torino 1994, pp. 68-74. In senso analogo, ma sulla base dell'opinione che la Chiesa possiede il potere di dissolvere il matrimonio rato e consumato, B. Petrà, Il matrimonio può morire?..., cit. p. 245.
[81] Cfr. M.F. Pompedda, La questione dell'ammissione ai sacramenti..., cit., p. 8.
[82] Alla dispensa e alla tolleranza si richiama esplicitamente A. Polag, Die Beziehung der Katholiken zur Kirche nac dem Scheitern einer Ehe. Problembeschreibung aus der Sicht eines Seelsorgers, in TH. Schneider (hrsg.), Geschieden, Wiederverheiratet..., cit., pp. 15-17. L'Autore non si pone il problema se su certe cose la Chiesa ha il potere di dispensare. E così, paradossalmente, mentre viene criticata la competenza del Magistero, si presuppone un'immagine volontarista della Chiesa secondo la quale i Pastori potrebbero far tutto e il contrario di tutto. L'unico problema sarebbe che adesso i Pastori, per durezza o rigidità, non vogliono fare ciò che i fedeli e i tempi chiedono. Non mi sembra una prospettiva ecclesiologica corretta.
[83] Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso alla Rota Romana, 10-II-1995, n.8.
[84] Cfr. TH. Schneider (hrsg.), Geschieden, Wiederverheiratet.... cit., pp. 14-15; 216-217; 266. In queste pagine, scritte da autori diversi, lo stesso problema viene presentato con sfumature diverse.
[85] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1650. Ripreso nella Lettera CDF 14/9/94, n. 4.
[86] Sant’Agostino Contra Faustum, lib. 22, cap. 27, PL 42, 418.
[87] "Qui conscius est peccati gravis, sine praemissa sacramentali confessione Missam ne celebret neve Corpori Domini communicet, nisi adsit gravis ratio et deficiat opportunitas confitendi; quo in casu meminerit se obligatione teneri ad eliciendum actum perfectae contritionis, qui includit propositum quam primum confitendi" (CIC, 916).
[88] Per esempio, se c'è stato un sospetto di impotenza antecedente o di omosessualità implicante impotenza, dolo in caso di AIDS, ecc.