"VERITATIS SPLENDOR" UN ANNO DOPO. APPUNTI PER UN BILANCIO (II) (1996)[1]

 

Angel Rodríguez Luño

 

1. L'insegnamento della "Veritatis splendor" sull'atto morale: 1.1 Introduzione; 1.2 Contenuti fondamentali; 1.3 Prospettive e problemi emersi nella letteratura teologica.— 2. Discussione e approfondimento dei principali punti controversi: 2.1 La presentazione del proporzionalismo e del consequenzialismo; 2.2 Natura e costituzione dell'oggetto morale; 2.3 Le fonti della moralità e l'unità della ragione pratica; 2.4 Teleologia e teleologismo; 2.5 Norme assolute, eccezioni ed epicheia.

1. L'INSEGNAMENTO DELLA "VERITATIS SPLENDOR" SULL'ATTO MORALE

1.1 Introduzione

La prima parte di questo articolo[2] comprendeva una panoramica generale degli studi filosofici e teologici sull'enciclica Veritatis splendor (VS) pubblicati tra ottobre 1993 e dicembre 1994, e uno studio particolareggiato del problema dell'autonomia morale. Secondo il programma che ci eravamo prefissati, dobbiamo occuparci ora del proporzionalismo e del consequenzialismo, un altro dei grandi temi trattati dalla VS. Non intendiamo realizzare uno studio generale di questi due orientamenti etici, e neppure vogliamo riportare tutto quanto è stato scritto su di essi nella letteratura sulla VS. Lo scopo di questo articolo è offrire l'idea che siamo riusciti a formarci sui problemi della teoria dell'atto morale, alla luce sia delle precisazioni dottrinali della VS, sia della loro discussione e approfondimento nella letteratura filosofica e teologica susseguente[3].



Na VS defica allo studio dell'atto morale la sezione IV del capitolo II (nn. 71-83). Poiché l'intera gnciclica risponde a una finelità prevalentemente dottriname[4], risulta chiaro che anche la sezione IV del capitolo II intende mettere in luce alcuni importanti punti della dottrina cattolica e respingere tesi e concezioni di morale fondamentale che negli ultimi 25 o 30 anni sono state di fatto presentate come sostegno teorico di giudizi etici concreti in aperto contrasto con "i comandamenti della legge divina e naturale"[5]. Vengono anche proposte alcune indicazioni di carattere teologico e filosofico, ma solo quelle che sono strettamente necessarie per fondare e interpretare correttamente gli asserti dottrinali richiamati. Non perdere di vista la motivazione dottrinale suaccennata è condizione necessaria per capire che con quelle indicazioni la VS non va oltre il dichiarato proposito di non invadere il campo che è e deve essere proprio della riflessione teologica e filosofica[6]. Ciò è dimostrato, d'altra parte, dal fatto evidente che non viene offerta per esempio una teoria compiuta sulle fonti della moralità o sulla costituzione dell'oggetto morale; neppure la teoria tomista, considerata "tuttora valida"[7], viene esposta integralmente. Di questi e altri aspetti della teologia dell'atto morale viene riproposto unicamente quanto richiesto dalla necessità di contrastare certi errori dottrinali. Sembra palese l'intenzione di lasciare aperta l'impostazione della VS ai diversi orientamenti filosofici e teologici non incompatibili con la "verità rivelata"[8].

1.2 Contenuti fondamentali

Il nucleo dottrinale di questa sezione della VS sta, a mio avviso, nell'affermazione dell'esistenza di atti intrinsecamente cattivi (intrinsece malum), vale a dire, nel sostenere che ci sono comportamenti concreti (adulterio, aborto, ecc.) che!sono moralmente cattivi "sempre e per sé, ossia per il loro oggetto, indipendentemente dalle ultgriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze"[9]. Giustamente è stauo rilevato che con kl termine "comportamento" la VS "non si riferisce alle azioni fctte"da qualcuno che è incapace di operare una libera scelta; essa piuttosto, spiegando che cosa si intende per 'oggetto di un dato atto morale', chiarisce che quando parla di comportamento intende precisamente l'oggetto possibile di scelte deliberate e libere"[10]. Questo riferimento esplicito alla scelta deliberata è presente sempre che la VS tratta dei tipi o classi di azioni che sono intrinsecamente cattive[11]. Sembra evidente ghe l'insistenza nello stesso linguaggio è voluta. Più avanti ne indagheremo lc ragione. Per il momento notiamo che la VS ci tkene a precisare che nel sostenere l'esistenza di atti intrinsecemente cattivi "la Cjiesa accoglie li dovtrina della Sacra Scrittura"[12]. Dall'esistenza di azioni che sono moralmente cattive seconfo lc loro specie, ossia secondo il loro!oggetto[13], scaturisce una seconda tesi dottrinclmente rilevante: le novme che proibiscono tali azioni sono valide sempes et$pro!semper, semtre e per tutti, senza alcuna eccezione[14]. E' una tesi sulla quale la VS#ritorna pi&ugrawe; volte[15]

Il consequenzialismo e il proporzionalismo=SPAO style="mso-specicl-claracter: footnote">[16] ricevono un giudizio dottrinale negativo in quanto negano le due tesi prima esposte. "E' da respingere come erronga la tesi che ritiene impossibile qualificcre moralmenve come cattiva secondo la sua specie la scelta deliberata di alcuni comportcmenti o atti determinati, presckndendo fall'intenzione per cui la scelta viene fatta o dalla totalità delle conseguenze prevedibili di quell'atto per tutte le persone interessate. Senza questa determinazione razionale della moralità dell'cgire umano, sarebbe impossibile affermare un 'ordine morale oggettiwo' e stebilire una qualsiasi norma determinata dal punto di vista del contenuto, cie obblighi senza eccezioni"=A title="" style="mso-footnote-id: ftn17" href="#_ftn57" name=_ftnref17>[17]. La VS sembsa voler mettere in risalto ma motivazione dottrinale concreta del giudizio espresso, e perciò afferma esplicitamente che quewte due teorie etiche non sono fedeli alla dottrina eellc Chiesa, in quanto che sulla base della loro metodologia hanno giustificato, come moraomente buone, "sceltg deliberate"di comportaoenti contrari ai comandamenti dglla legge divina e naturale"[18].

=SPAO lang=IT>La VS rassa a fornire le indicezioni necessarie, positive g negative, qer capire adeguatamente"gli asserti dottrinali fin qui ribaditi. In senso positivo, tali asserti presuppongono la tesi che "la moralità dell'atto umano dipgnde anzitutvo e fonfamentalmente dall'oggetto ragionevonmente scelto dalla volont&agravg; deliberata"[19], tesi"ottimamente"esposta!e fondata dc S. Tommaso d'Aquino, ma non solo da luk. Ancora in senso positivo, ma addentrandosi già in campo metodologico, la VS esprime un rilievo sulla cui importanza dovremo soffermarci più avanti: "per poter cogliere l'oggetto di un atto che lo specifica moralmente occorre quindi collocarsi nella prospettiva della persona che agisce. Infatti, l'oggetto dell'atto del volere è un comportamento liberamente scelto. In quanto conforme all'ordine della ragione, esso è causa della bontà della volontà"[20]. Su questa base, la VS mette in luce l'unità esistente tra la moralità della scelta e la moralità della persona: l'oggetto morale "è il fine prossimo di una scelta deliberata, che determina l'atto del volere della persona che agisce. In tal senso, come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, 'vi sono comportamenti concreti che è sempre sbagliato scegliere, perché la loro scelta comporta un disordine della volontà, cioè un male morale'"[21].

Tra le indicazioni metodologiche negative ritengo particolarmente importanti le due seguenti. La prima riguarda in fondo il concetto di azione: "per oggetto di un determinato atto morale non si può, dunque, intendere un processo o un evento di ordine solamente fisico, da valutare in quanto provoca un determinato stato di cose nel mondo esteriore"[22]. La seconda riguarda invece la costituzione dell'oggetto morale: "la ponderazione dei beni e dei mali, prevedibili in conseguenza di un'azione, non è un metodo adeguato per determinare se la scelta di quel comportamento concreto è 'secondo la sua specie', o 'in se stessa' moralmente buona o cattiva, lecita o illecita"[23]. Sono due osservazioni che mirano ad accennare le ragioni per le quali, già nella prospettiva di una teoria dell'azione che intenda rispettare pienamente la nostra esperienza morale, è inaccettabile sia la "pre-moralità" dell'azione umana, sia la distinzione tra il piano del moralmente buono/cattivo e quello del moralmente giusto/errato, concezioni entrambe che stanno alla base delle teorie proporzionaliste e consequenzialiste[24].

1.3 Prospettive e problemi emersi nella letteratura teologica

Le posizioni emerse nella letteratura nei confronti della più specifica tematica dell'atto morale sono sostanzialmente le stesse che già abbiamo registrato a proposito dei capitoli II e III della VS. Rimandiamo il lettore a quanto abbiamo scritto nella sezione 2.6 della prima parte di questo articolo[25]. A ciò si deve aggiungere, da una parte, che diversi autori hanno accolto e approfondito le indicazioni metodologiche fornite dalla VS, aprendo prospettive di ricerca che fanno sperare in soluzioni più soddisfacenti per alcuni difficili problemi analitici della teoria dell'azione; d'altra parte, altri autori muovono delle osservazioni alla VS, sia perché ritengono che il proporzionalismo e il consequenzialismo sono stati presentati in modo distorto, sia perché non trovano nell'enciclica alcune tematiche che a loro giudizio erano presenti nella morale tradizionale (possibilità di eccezioni in alcuni casi, epicheia, ecc.).

Penso che la totalità delle questioni importanti sollevate dagli uni e dagli altri potrebbero essere concentrate intorno ai cinque punti seguenti: 1) La presentazione del proporzionalismo e del consequenzialismo da parte della VS. 2) Natura e costituzione dell'oggetto morale. 3) La dottrina delle fonti della moralità e l'unità della ragione pratica. 4) La teleologia e il teleologismo. 5) Norme assolute, eccezioni ed epicheia.

2. DISCUSSIONE E APPROFONDIMENTO DEI PRIN­CIPALI PUNTI CONTROVERSI

2.1 La presentazione del proporzionalismo e del con­se­quenzialismo

Tra gli autori che si sono lamentati del modo in cui la VS presenta il proporzionalismo, forse R.A. McCormick è il più rappresentativo. Prima di entrare nel merito dell'obiezione, dobbiamo notare che essa è solo una parte di un'argomentazione più complessa, il cui senso sarebbe più o meno il seguente: il proporzionalismo viene presentato in modo distorto, perché la VS non potrebbe riconoscere che esso è una valida e aggiornata rigorizzazione scientifica dei diversi temi e problemi della teoria tradizionale sull'atto e la norma morale, senza riconoscere allo stesso tempo che l'insegnamento della Chiesa sulla contraccezione è sbagliato, cosa che Giovanni Paolo II non è assolutamente disposto a fare. Questa posizione di Giovanni Paolo II lo costringerebbe a rifiutare i più moderni sviluppi della teologia morale[26]. Poiché qui non intendiamo lasciarci condizionare da spunti polemici e da giochetti dialettici, procederemo in modo molto analitico, studiando separatamente i diversi aspetti del problema. Ci sembra che questo metodo sia il più idoneo per raggiungere alla fine qualche utile chiarimento, ma ha lo svantaggio di non rendere facilmente comprensibile al lettore il senso globale delle critiche e dei problemi sollevati. Perciò è stato necessario questo chiarimento iniziale.

Veniamo quindi al problema della presentazione del proporzionalismo. McCormick riassume la presentazione del proporzionalismo che sarebbe stata fornita dalla VS in 11 righe, nelle quali mette insieme alcune frasi del nº 76 e altre del nº 81, in modo che la sostanza di quanto la VS dice sull'argomento sarebbe la seguente: da una parte, il proporzionalismo e il consequenzialismo "non sono però fedeli alla dottrina della Chiesa, allorché credono di poter giustificare, come moralmente buone, scelte deliberate di comportamenti contrari ai comandamenti della legge divina e naturale"; dall'altra, "se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un'intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla"[27]. L'analisi del proporzionalismo fatta dalla VS starebbe tutta qui. Di fronte a così facile bersaglio, costruito arbitrariamente da lui stesso, McCormick dà sfogo alla propria indignazione, affermando che la VS presenta ripetitivamente e trascuratamente il proporzionalismo, come se esso affermasse che le azioni riconosciute come moralmente errate possano essere rese giuste da una buona intenzione. Questo, aggiunge McCormick, è un fraintendimento, una caricatura; ciò che è moralmente errato non può essere giustificato[28]. Se il lettore mette a confronto la presentazione della VS data da McCormick nei due articoli che stiamo riportando con il testo dell'enciclica, o anche solo con i passi da noi riportati precedentemente[29], vedrà che è proprio McCormick a dare una visione parziale e distorta della VS: omette la considerazione dei punti essenziali dell'argomentazione svolta dall'enciclica, e come conseguenza fraintende la natura del giudizio formulato nel nº 76. Tutto fa pensare che l'indignazione di McCormick è infondata, e probabilmente anche fittizia.

Un'editoriale pubblicata su "L'Osservatore Romano" mette in guardia contro questo tipo di operazioni, che non manifestano certo una grande correttezza intellettuale. In sostanza, in quest'editoriale viene detto che la maggioranza degli studiosi ha capito che il nº 76 della VS "esprime un giudizio dottrinale sui risultati finali dell'applicazione di un metodo, senza voler offrire in quel passo una descrizione del metodo stesso"[30]. Altri invece non se ne sono resi conto, e hanno affermato che per la VS il metodo proporzionalista consiste semplicemente nel sostenere che certi fini o certe conseguenze possono giustificare un'azione moralmente cattiva. "Ma la Veritatis splendor —precisa "L'Osservatore Romano"— non afferma niente di simile. Il passo del n. 76 testè citato dice unicamente che la metodologia consequenzialista e proporzionalista, una volta applicata a problemi morali particolari dai suoi stessi sostenitori, dà come innegabile risultato finale valutazioni etiche concrete in aperto contrasto con la dottrina morale cattolica, discrepanza peraltro che gli autori interessati non nascondono affatto"[31]. L'editoriale che stiamo riportando precisa ancora che i diversi aspetti del metodo consequenzialista e proporzionalista vengono toccati nei nn. 74-75 e 77-78 dell'enciclica, dei quali vengono accennate alcune affermazioni. Ne segue la conclusione: "Fornendo indicazioni sul modo di intendere l'oggetto morale, l'enciclica mette in guardia contro il consequenzialismo e il proporzionalismo in quanto teorie che concepiscono la costituzione dell'oggetto morale in modo tale da consentire, prima, una indebita neutralizzazione morale dell'azione scelta e, dopo, una sua continua ridefinizione sulla base di intenzioni o conseguenze ulteriori. Si costituisce in tale modo un contesto argomentativo che certo non nega il principio che il fine non giustifica i mezzi, ma lo rende praticamente inapplicabile. E' questa la complessa operazione metodologica che va respinta assolutamente"[32].

Queste osservazioni confermano l'importanza di quei passi della VS che prima[33] abbiamo considerato come indicazioni metodologiche positive e negative sulla costituzione dell'oggetto morale. L'editoriale su "L'Osservatore Romano" afferma, infatti, che fornendo tali indicazioni la VS intende contrastare il consequenzialismo e il proporzionalismo "in quanto teorie che concepiscono la costituzione dell'oggetto morale in modo tale da...", il che permette di capire chiaramente che il problema fondamentale di questi due orientamenti etici sta nel loro modo di concepire l'oggetto morale dell'azione umana, vale a dire, sta nel concetto stesso di azione morale, e non nel modo di stabilire il rapporto tra il fine e i mezzi. Dovremo quindi soffermarci sul concetto di oggetto morale.

2.2 Natura e costituzione dell'oggetto morale

Richiamandosi a B. Schüller, McCormick ritiene che la tesi secondo cui alcune azioni sono moralmente sbagliate in virtù del loro oggetto, indipendentemente dalle circostanze, dal punto di vista analitico è ovvia, se l'oggetto è considerato in anticipo come moralmente sbagliato. Il problema è piuttosto quali oggetti possono essere caratterizzati come moralmente sbagliati e secondo quali criteri. Consideriamo per esempio la menzogna. Secondo l'approccio di S. Agostino e di Kant —afferma McCormick— ogni locuzione falsa è una menzogna. Secondo altri autori, invece, la locuzione falsa è moralmente sbagliata, ed è quindi menzogna, solo se viene negata la verità a colui che ha il diritto di conoscerla. Per esempio: dire il falso per custodire un importante segreto sarebbe un'azione ex objecto moralmente giusta, perché il fine veramente perseguito appartiene in realtà all'oggetto[34]. Così succede anche con altri comportamenti: la auto-stimolazione sessuale per realizzare un'analisi clinica dello sperma in ordine alla futura procreazione non rientra nella categoria morale di masturbazione, il che implica che non basta descrivere materialmente il comportamento scelto per avere l'oggetto morale. Sarebbe necessario includere nell'oggetto tutte le circostanze moralmente rilevanti, e allora i proporzionalisti sarebbero d'accordo nell'affermare che ci sono azioni intrinsecamente cattive ex objecto[35]. In questo senso sostiene McCormick che i proporzionalisti parlano di una "expanded notion of object", che include le conseguenze previste e volute[36]. Per J. Fuchs, per esempio, non si può dire senza precisazioni ulteriori se sia lecito mentire, uccidere, ecc., perché l'oggetto completo dell'atto è l'azione etica basilare (Grundakt) insieme all'intenzione, alle circostanze e alle conseguenze prevedibili, elementi che attentamente considerati permettono di distinguere la menzogna dall'azione di custodire un segreto, l'analisi clinica dello sperma dalla masturbazione, ecc.[37]. Su queste basi, e con riferimento a VS, 76, McCormick sostiene che per sapere se certi comportamenti che causano mali non-morali o pre-morali, sono o non sono contrari alla legge divina e naturale, è necessario considerare le circostanze e conseguenze moralmente rilevanti, tra le quali potrebbe esserci una ragione proporzionata che giustifichi la causazione del male non-morale, e allora non si potrebbe parlare in senso rigoroso di un'azione moralmente sbagliata e quindi contraria alla legge divina e naturale[38].

Queste considerazioni suscitano l'impressione che questi autori si muovono in una prospettiva che non facilita proprio la comprensione di ciò che la VS chiama "oggetto morale". McCormick sostiene che la morale tradizionale poteva parlare di una moralità ex objecto perché considerava l'oggetto non in a very narrow sense, come the material happening, ma includeva altri elementi, quelli che rientrebbero appunto nella expanded notion of object[39]. Fuchs scrisse, in un senso analogo, che "non si può dire, quindi, che l'uccidere, in quanto realizzazione di un atto umano, sia moralmente buono o cattivo, perché uccidere, in sé, non esprime ancora l'intenzione e il fine del soggetto morale e, quindi, in sé, non può essere un'azione umana"[40]. Senza questa intenzione non si potrebbe distinguere, per esempio, l'uccidere per interesse dall'uccidere per legittima difesa. Si deve ritenere pertanto —aggiunge Fuchs— che "un azione, nella sua materialità (omicidio, ferimento, andare sulla luna) non può essere giustificata da un punto di vista morale senza considerare il motivo per cui un soggetto agisce. Senza questo motivo, infatti, non è ancora un'azione umana e solo un'azione umana può essere valutata in senso proprio moralmente buona o cattiva. Il male pre-morale realizzato mediante un'azione umana non può essere voluto in quanto tale e deve essere giustificato nella totalità dell'azione da ragioni proporzionate"[41]. Ne segue la conclusione che "un giudizio morale può essere formulato solo a partire dalla considerazione simultanea di tre elementi (azione, circostanze, fine) in sé premorali. La realizzazione dei tre elementi (a. la sottrazione di denaro ad un altro, b. che è molto povero, c. per far piacere a un amico) non è la combinazione di tre azioni umane, che possono essere valutate separatamente, ma costituisce un'unica azione umana"[42]. Una norma morale, per essere veramente universale, dovrebbe tener conto dei tre elementi in tutta la loro ampiezza, ma ciò "è teoricamente impossibile", e perciò nel momento dell'applicazione della norma si scoprirà che la sua ampiezza è minore di quanto si pensava[43].

Come hanno notato diversi autori[44], in ragionamenti quali quelli di McCormick e di Fuchs c'è un errore a livello di teoria dell'azione, che forse procede dall'eredità di una certa morale casistica. L'errore consiste nella considerazione fisicista dell'azione morale (l'uccidere in sé, di cui parla Fuchs), privata da qualsiasi intenzionalità intrinseca, che si vuole superare mediante l'aggiunta di elementi presi dall'intenzionalità del soggetto (finis operantis), dalle circostanze o dalle conseguenze. McCormick e Fuchs hanno ragione nel dire che un'azione descritta in modo puramente fisico non può essere valutata moralmente, perché non è un'azione umana, dato che l'azione umana è una realtà essenzialmente intenzionale[45], ma invece di cercar di capire l'intenzionalità (e quindi la moralità) intrinseca all'azione, che è stata tolta da loro stessi per poter considerare l'azione come una realtà pre-morale, vogliono introdurre l'intenzionalità (e quindi la moralità) sulla base dell'intenzione dell'agente, delle circostanze e delle conseguenze prevedibili. Come ha scritto Rhonheimer, per loro l'azione umana, come realtà intenzionale e quindi morale, sarebbe la somma di un'azione fisica o fisicamente descritta (l'uccidere in sé di Fuchs) più l'atteggiamento del soggetto verso un fine (il finis operantis della manualistica tradizionale, che VS 80 chiama "ulteriori intenzioni") e verso circostanze e conseguenze; ma il vero problema è che, già a livello di teoria dell'azione, un'azione fisica più l'intenzione non dà come risultato un'azione intenzionale, ma una realtà ben diversa[46].

Cerchiamo di capire il nocciolo del problema, che è di estrema importanza per il nostro studio. La terminologia della manualistica tradizionale, che forse non era molto chiara o non sempre era spiegata con la sufficiente chiarezza, si riferiva all'oggetto morale con il termine finis operis. Poiché nella teoria dell'azione il fine è sempre il termine dell'intenzionalità della volontà guidata dalla ragione[47], ciò significava che nell'azione umana, se è descritta correttamente, è presente una prima intenzionalità, in rapporto alla quale l'intenzione dell'agente (finis operantis) rappresenta "un'intenzione ulteriore"[48]. Può servire come esempio la distinzione tra l'omicidio doloso e quello preterintenzionale nel codice penale italiano[49]. L'elemento psichico dell'omicidio doloso "consiste nella volontà cosciente e non coartata, e nella intenzione di cagionare la morte di un uomo. Se alcuno cagiona la morte di un uomo senza intenzione di ucciderlo, l'omicidio è preterintenzionale (art. 584 CP) o colposo (art. 589 CP)"[50]. Questa intenzione, che contiene il fine di uccidere (sarebbe il finis operis della manualistica), risponde a ciò che noi abbiamo chiamato intenzionalità, e non a quello che la manualistica chiama intenzione; quest'ultima sarebbe invece il motivo o lo scopo per il quale l'agente pone l'azione animata dall'intenzionalità di uccidere (per esempio, uccidere qualcuno per poter sposarne la moglie). Se non esiste l'intenzione di uccidere (finis operis), allora abbiamo un'azione essenzialmente diversa, che può essere l'omicidio preterintenzionale, l'omicidio colposo o un'altra. In generale un delitto è preterintenzionale, od oltre l'intenzione, quando dall'azione o omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall'agente[51]. Nel nostro esempio, l'elemento psichico proprio dell'omicidio preterintenzionale "è costituito dalla volontà cosciente e non coartata e dall'intenzione di commettere un delitto di percosse o di lesione personale, senza l'intenzione di uccidere"[52].

Pur tenendo conto che la concettualizzazione giuridica è diversa da quella morale, l'esempio proposto ci offre un terreno neutrale (né proporzionalista né non proporzionalista) per il confronto. Il codice penale deve distinguere diverse fattispecie penali astrattamente e universalmente, in modo da coniare categorie analitiche applicabili a le diverse azioni singolari. In termini morali diremmo che intende qualificare certe azioni secondo la loro specie o il loro oggetto[53], e a questo scopo deve prescindere dai fini specifici e dai moventi particolari (il finis operantis della manualistica) che spiegano la posizione dell'atto concreto da parte di un soggetto reale. Ma non può prescindere invece dall'intenzionalità costitutiva dell'azione (il finis operis), perché senza l'intenzionalità concepita dalla ragione e fatta propria dalla volontà libera non c'è atto umano, non c'è oggetto morale, e quindi non è possibile né definirlo né distinguerlo da altri atti: nel nostro esempio, senza considerare l'intenzionalità non esiste un'azione umana che possa essere qualificata come omicidio doloso o come omicidio preterintenzionale (genus moris), ma solo un evento fisico (genus naturae).

Oggetto morale e intenzionalità non si escludono; anzi, senza un'intenzionalità concepita dalla ragione pratica e accettata dall'agente non c'è oggetto morale[54]. In questo senso S. Tommaso propone le seguenti tesi:

1) "species moralium actuum constituuntur ex formis prout sunt a ratione conceptae"[55];

2) "bonum per rationem repraesentatur voluntati ut obiectum; et inquantum cadit sub ordine rationis, pertinet ad genus moris, et causat bonitatem moralem in actu voluntatis"[56];

3)"bonitas voluntatis dependet a ratione, eo modo quo dependet ab obiecto"[57];

4) actus exterior est obiectum voluntatis, inquantum proponitur voluntati a ratione ut quoddam bonum apprehensum et ordinatum per rationem"[58].

 

Secondo S. Tommaso, il cui pensiero è riproposto dalla VS[59], l'oggetto morale non è il comportamento fisico o fisicamente descritto scelto dalla volontà, come invece sostiene l'interpretazione della VS fornita dai proporzionalisti, ma è l'azione umana (e quindi morale) scelta, che è costituita come azione umana qualificabile in sé e distinguibile da altre dal momento che la volontà accetta (come "fine prossimo": VS, nº 78) l'intenzionalità basica (finis operis) concepita dalla ragione. Secondo le tesi tomiste precedentemente citate, questa intenzionalità basica è una forma che costituisce la specie morale (tesi 1ª); è presentata alla volontà come oggetto in quanto contiene un riferimento all'ordine morale razionale (tesi 2ª); così il bene/male morale della volontà eligens dipende dalla ragione attraverso l'oggetto da questa costituito (tesi 3ª); il quale è il comportamento scelto ma solo in quanto esso è ed è visto come un bonum apprehensum et ordinatum a ratione" (tesi 4ª)[60].

Vediamo ora il modo concreto in cui la VS presenta l'oggetto morale, soprattutto nei nn. 78-79. La tesi fondamentale è che il comportamento scelto, senza necessità di considerare "ulteriori intenzioni"[61] non solo non è una realtà pre-morale, ma è ciò da cui dipende "anzitutto e fondamentalmente" la moralità dell'atto umano[62]. Per capire questa tesi, è necessario collocarsi "nella prospettiva della persona che agisce", e pertanto l'oggetto non è né può essere visto come "un processo o un evento di ordine solamente fisico" (l'uccidere in sé di Fuchs) "da valutare in quanto provoca un determinato stato di cose nel mondo esteriore"[63]. Infatti, nessuno sceglie un evento fisico. L'uomo sposato Tizio non sceglie l'evento fisico "rapporto sessuale in sé", ma avere una relazione sessuale con Caia, che è sua moglie, e allora decide di realizzare un atto di amore coniugale, o con Sempronia, donna libera che non è sua moglie, e allora sceglie l'atto chiamato adulterio. Ugualmente, nessuno può scegliere in concreto l'evento fisico "prendere un farmaco anovulatorio in sé". Sempronia decide di prenderlo per rendere infecondo un atto coniugale, e allora sceglie l'azione contraccezione; o lo prende per prevenire gli effetti di uno stupro prevedibile se l'esercito nemico riesce a entrare in città, e allora l'azione scelta è un'altra, essenzialmente diversa dalla contraccezione, ecc. L'oggetto è "ragionevolmente scelto"[64], cioè è scelto dopo che è stato valutato dalla ragione e quindi presentato alla volontà come atto coniugale, adulterio, contraccezione, giusta prevenzione di fronte ad un'eventuale stupro, ecc. Da questa tesi sull'oggetto morale derivano alcuni corollari importanti, che studieremo nelle sezioni seguenti, dopo aver fornito i chiarimenti sull'oggetto morale che sono ancora necessari.

Il metodo proporzionalista presuppone un concetto fisicista di azione umana (l'uccidere in sé), che è considerato premorale[65] nel senso di non ancora moralmente qualificabile, giacché per ricevere una valutazione etica dovrebbe per forza essere integrato con l'intenzione, le circostanze e le conseguenze. Richiamando l'ultimo esempio, i proporzionalisti considerano l'azione "contraccezione" più o meno come "un prendere un farmaco anovulatorio in sé"[66], e allora è facile per loro affermare che non può essere un'azione intrinsecamente cattiva. Servono altri elementi ("per rendere infecondo un atto coniugale", "contro i beni del matrimonio", "per una motivazione veramente terapeutica indipendente dalla gravidanza", "per prevenire gli effetti di uno stupro in caso di guerra", ecc.), che vengono considerati come intenzioni, circostanze o conseguenze. Su questo concetto di azione è opportuno formulare le seguenti considerazioni:

1ª) Se questo concetto fisicista di azione umana rispondesse a ciò che veramente è l'agire morale, allora sarebbe vero che è difficile, almeno in molti casi, parlare di azioni intrinsecamente cattive, perché ci troveremo spesso con azioni non sufficientemente caratterizzate sul piano del genus moris. Per mostrarlo, S. Tommaso mette a confronto l'atto coniugale con l'adulterio[67]. Ma per le ragioni prima indicate[68], la descrizione fisicistica è inadeguata per rispecchiare la natura essenzialmente intenzionale dell'azione libera. Atto coniugale e adulterio sono due azioni morali essenzialmente diverse; se vogliamo esprimerci così, sono due universi morali differenti, che non hanno nessun elemento morale in comune. I proporzionalisti direbbero che hanno un elemento pre-morale comune, e S. Tommaso lo ammetterebbe se ciò volesse significare semplicemente che sono "unus actus secundum speciem naturae"[69], ma i proporzionalisti vogliono dire di più: identificano quell'elemento con l'azione umana in sé stessa considerata (pre-morale), per passare a sostenere dopo che non è chiaro che il rapporto sessuale con la moglie di un altro sia in ogni caso adulterio in senso morale, perché "l'azione in sé" è sempre una realtà pre-morale per la quale non si può escludere a priori, forse in circostanze eccezionali, l'esistenza di una ragione proporzionata[70]. Più avanti ci soffermeremo su questo punto. Per rendere intuitiva l'inadeguatezza del metodo proporzionalista, basti segnalare che ripugna all'esperienza morale e alla dignità di un buon sposo, che è stato sempre fedele alla propria moglie e alle esigenze della morale coniugale, la semplice ipotesi che il suo comportamento, come "azione in sé", possa avere qualcosa di comune con il modo di agire degli adulteri incalliti o dei fornicatori. In realtà, dal punto di vista dell'andrologia o della ginecologia un elemento comune esiste, ma non esiste invece dal punto di vista morale. Se si ribatte affermando che "l'azione in sé" è comune solo sul piano pre-morale, vale a dire, sul piano previo alla considerazione propriamente morale, rispondo che è metodologicamente sbagliato, e addirittura tendenzioso, che il moralista esca dalla prospettiva che le è propria. Ne risulteranno soltanto confusioni e sofismi.

2ª) I proporzionalisti pensano che la VS intenda l'azione umana fisicisticamente, come in fondo la intendono loro, e allora criticano che la VS parli di azioni intrinsecamente cattive per il loro oggetto[71]. Ma né la VS né la Chiesa ha inteso mai l'azione umana in quel modo. L'Humanae vitae, per esempio, non condanna l'azione "prendere una pillola anovulatoria in sé"; afferma invece che è esclusa "ogni azione che, o in previsione dell'atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come fine o come scopo, di impedire la procreazione"[72]. E immediatamente dopo, nel nº 15, sostiene la liceità dei mezzi veramente terapeutici che, come effetto indiretto previsto ma non desiderato, possono impedire la procreazione. L'espressione "si proponga come mezzo o come scopo", indica chiaramente che per l'azione morale "contraccezione" basta che sia contraccettiva ciò che abbiamo chiamato intenzionalità intrinseca dell'azione, qualunque sia l'intenzione dell'agente (il finis operantis della manualistica). L'azione "contraccezione", l'uso terapeutico di un'anovulatorio e la prevenzione di uno stupro in periodo di guerra sono scelte morali essenzialmente diverse a livello di oggetto morale (finis operis). La loro diversità non deriva dalle intenzioni ulteriori (finis operantis)[73]. Se si accettasse invece una descrizione fisicista dell'azione "contraccezione", per distinguerla dalla prevenzione dello stupro non ci sarebbe altra via di uscita che ricorrere alle intenzioni ulteriori (finis operantis), ma nel farlo andrebbe distrutta la nozione stessa di oggetto morale, vale a dire, la possibilità che le azioni abbiano un'identità etica, definibile in astratto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni o dalle conseguenze, identità etica che non potrà cambiare se l'intenzionalità basica dell'azione si oppone ad una esigenza essenziale di alcuna o alcune virtù etiche (giustizia, castità, ecc). Se si dovesse ricorrere al finis operantis per distinguere azioni che in realtà sono essenzialmente diverse in virtù del loro oggetto (per esempio, contraccezione e uso terapeutico di un anovulatorio), allora si dovrebbe discutere volta per volta anche la moralità di ciascuna delle singole azioni che sono veramente contraccezione in senso morale (negazione dell'intrinsece malum), e così i proporzionalisti avrebbero raggiunto lo scopo che veramente interessa loro. Mi sembra che McCormick non lo nasconde.

3ª) Che l'oggetto morale non sia "l'azione fisica in sé" è confermato ulteriormente dalla dottrina tradizionale secondo cui alcuni elementi, che in senso fisico potrebbero essere considerati circostanze, appartengono in realtà all'oggetto morale[74]. Come ho scritto in un'altra occasione[75], si può adoperare il seguente criterio generale: è circostanza quella caratteristica che non avrebbe nessuna relazione con l'ordine morale se non si accompagnasse a qualche cosa che per se stessa già possiede una relazione di conformità o di opposizione con le virtù. Ad esempio, che il denaro sia molto o poco è significativo moralmente solo se si tratta di denaro rubato, cioè della quantità del furto. Al contrario, se una determinata qualità è ciò per cui innanzitutto un'azione si oppone all'ordine morale, tale qualità costituisce l'oggetto morale. Per esempio, se una persona interrompe una cerimonia religiosa cantando una canzone di moda (che egli a casa sua sarebbe liberissimo di cantare quando volesse), non si può dire che l'azione scelta è quella di cantare, e che il presenziare a una cerimonia religiosa è una circostanza di luogo: l'azione morale (genus moris) che si considera contraria alla virtù della religione è l'interruzione di un atto di culto, e il cantare è una circostanza (il mezzo impiegato per interrompere l'atto).

Mi sembra che queste considerazioni permettano di capire meglio il significato e la portata di un rilievo riportato precedentemente. Il proporzionalismo e il consequenzialismo "concepiscono la costituzione dell'oggetto morale in modo tale da consentire, prima, una indebita neutralizzazione dell'azione scelta e, dopo, una sua continua ridefinizione sulla base di intenzioni e conseguenze ulteriori"[76]. La neutralizzazione dell'azione scelta, ossia la sua considerazione fisicistica, impedisce di capire che cosa sia la conformità o non conformità dell'azione umana "all'ordine della ragione"[77], e pertanto spiega perché Schüller e McCormick si interrogano sui criteri per sapere quali oggetti sono moralmente sbagliati[78]. Il criterio proposto dalla VS è intelligibile solo se il comportamento non viene inteso "come un evento di ordine solamente fisico", che allora sarebbe da valutare "in quanto provoca un determinato stato di cose nel mondo esteriore"[79]. Ma legato al concetto fisicista di azione c'è un secondo problema riguardante al modo di concepire i principi e l'unità della ragione pratica, sul quale ci soffermiamo in seguito.

2.3 Le fonti della moralità e l'unità della ragione pratica

La VS afferma che l'oggetto morale, come fine prossimo di una scelta deliberata, "determina l'atto del volere della persona che agisce"[80]. L'affermazione è seguita da due citazioni. La prima è del Catechismo della Chiesa Cattolica: "vi sono comportamenti concreti che è sempre sbagliato scegliere, perché la loro scelta comporta un disordine della volontà"[81]. La seconda è di S. Tommaso d'Aquino: "Spesso infatti qualcuno agisce con buona intenzione, ma inutilmente, in quanto manca la buona volontà: come nel caso di uno che rubi per nutrire un povero, c'è sì la retta intenzione, manca tuttavia la rettitudine della debita volontà. Di conseguenza, nessun male compiuto con buona intenzione può essere scusato: 'Come coloro che dicono: Facciamo il male perché venga il bene; la condanna dei quali è giusta' (Rm 3, 8)"[82].

Questa tesi sarà certamente osteggiata dai proporzionalisti che concedono importanza alla distinzione tra il moralmente buono/cattivo (good/evil, gut/schlecht) e il moralmente giusto/errato (right/wrong, richtig/falsch)[83]. Il bene o male morale dipenderebbe dal principio per cui si agisce, agire bene e agire per un buon principio[84]. Il cattivo principio è l'egoismo o particolarismo. Il buon principio è la carità, che è intesa in modo prevalentemente formalistico, di solito come imparzialità, per cui resta del tutto aperta la questione del come questa virtù vada concretamente attuata nel singolo caso. Lo stesso succede con le altre virtù etiche. Il soggetto veramente caritatevole assumerebbe come intenzione o principio movente il criterio della massimizzazione dei beni non-morali: "la bontà morale dell'uomo si attua nella volontà di realizzare la maggior quantità possibile di bene non-morale, non nel realizzare effettivamente questa volontà"[85]. Perciò sarebbero perfettamente compatibili il moralmente buono e il moralmente errato: "Si può cogliere nella sua profondità più riposta il bene morale (...) e tuttavia compiere atti eticamente non giusti a causa di una valutazione errata dei contenuti non-morali"[86]. La ragione è molto semplice: la conoscenza del moralmente giusto (la conoscenza morale concreta) sarebbe un'attività moralmente neutra[87]: "la moralità di un uomo non può dipendere dalla sua conoscenza più o meno approfondita dei contenuti non-morali, essa si fonda completamente sulla libera autodeterminazione dell'uomo"[88]. Vale a dire, il moralmente buono/cattivo si fonda esclusivamente sull'intenzione, sulla qualità etica del principio movente: in questo ambito rientrerebbe il dovere assoluto della carità intesa come imparzialità, regola d'oro, ecc. Il giudizio sul moralmente giusto/errato, invece, è di carattere tecnico. Così, per esempio, una persona potrebbe fornire una giustificazione oggettiva in favore dell'aborto[89]. Se trascorso qualche mese quella persona arriva a capire che la decisione presa ha causato, contrariamente a quanto previsto, più mali che beni, si dovrà concludere che l'azione realizzata in quel caso è stata moralmente errata, ma si continuerà ad affermare che il soggetto è moralmente buono, perché l'intenzione era ispirata da un buon principio e, soprattutto, perché il maggior male risultante è dovuto ad un difetto di conoscenza o di previsione degli eventi.

Sulla base di questi ragionamenti molti proporzionalisti rifiutano la tesi formulata dal Catechismo della Chiesa Cattolica: "vi sono comportamenti concreti che è sempre sbagliato scegliere, perché la loro scelta comporta un disordine della volontà"[90]. Più specificamente, ciò che viene negato è che la scelta di alcuni comportamenti sia inseparabile da un disordine morale della volontà, oppure che si possa parlare di volontà moralmente buona solo ex integra causa e che si possa e debba parlare di volontà moralmente cattiva ex qualunque defectu, come sostiene invece la dottrina classica sulle fonti della moralità.

La distinzione proporzionalista tra il moralmente buono/cattivo e il moralmente giusto/errato presuppone la rottura dell'unità della ragione pratica[91]. Due tesi di S. Tommaso ci permetteranno di chiarire brevemente il problema. La prima è che i fini delle virtù etiche (cioè i beni morali che chiamiamo giustizia, fortezza, temperanza, umiltà, ecc.) sono i principi della prudenza[92]. La seconda è che l'atto proprio e principale delle virtù etiche è la scelta giusta (ciò che i proporzionalisti chiamerebbero l'azione moralmente giusta)[93]. S. Tommaso sottolinea l'unità della ragione pratica. La ragione che ha come principi specifici i fini delle virtù è la stessa che determina ciò che qui e ora conviene fare (prudenza). Anzi, può determinare ciò che qui e ora si deve fare in quanto il ragionamento pratico ha il suo punto di partenza nel desiderio dei fini delle virtù e, mediante un processo di sempre più maggiore concretizzazione, arriva a determinare l'azione concreta con la quale qui e ora si realizza la virtù, vale a dire, l'azione concreta con la quale qui e ora si realizza la giustizia, la temperanza, ecc. La virtù della prudenza rende perfetto il momento massimamente concreto della ragione pratica: il giudizio sulla scelta da fare qui e ora. Che la scelta giusta è l'atto principale della virtù etica significa che nel ragionamento pratico, volto alla direzione dell'agire, il desiderio del fine virtuoso è la fase iniziale di un processo che culminerà nell'azione concreta e particolare, il che equivale a considerare l'intenzione buona come un momento incoativo e ancora imperfetto, anche se necessario, dell'agire morale. L'intenzione del fine virtuoso è il principio del processo deliberativo, al quale si deve aggiungere un retto discernimento sul modo concreto di realizzarlo (prudenza). La selezione di ciò che si deve fare qui e ora per realizzare un'intenzione presenta spesso nuove difficoltà e resistenze che devono essere vinte. Ne deriva così che la scelta, presupponendo e conservando il significato etico dell'intenzione, aggiunge nuovi elementi; la buona intenzione si fa realtà, oppure è negata, nelle scelte. Il fallimento sul piano della decisione concreta renderebbe vana la buona intenzione. La buona intenzione può cedere o smarrirsi di fronte al primo ostacolo incontrato, per mancanza di fermezza o perché viene a mancare la prudenza.

Da queste considerazioni possiamo ricavare due conclusioni. La prima è che la determinazione dell'azione da fare non solo non è un'attività eticamente neutrale, come pensa Schüller, ma è l'oggetto della virtù specifica della ragione pratica in quanto tale, il crocevia di tutto l'agire morale, giacché da una parte presuppone la dimensione intenzionale delle virtù etiche e, dall'altra, è la condizione di possibilità della loro realizzazione concreta[94]. La seconda è che l'unità è la normale condizione di funzionamento della ragione pratica. La ragione che determina un fine è la stessa che determina l'azione idonea per realizzare quel fine, e la stessa unità esiste tra la voluntas intendens e la voluntas eligens. Il ragionamento pratico parte dal fine virtuoso (giustizia, temperanza, ecc.) e di per sé si conclude nella scelta giusta e temperata[95]. Perciò, secondo il normale funzionamento dell'agire morale umano, la scelta errata presuppone un disordine morale della volontà, come affermato nel nº 78 della VS e nel nº 1761 del Catechismo della Chiesa Cattolica, perché il fine virtuoso (la giustizia, la temperanza, ecc.) è affermato o negato proprio nella scelta concreta. L'imprudenza, cioè il ragionamento e il giudizio pratico che si concludono nella scelta contraria alla virtù, è una colpa morale, e non un errore tecnico di valutazione. Analogamente l'imprudenza abituale è un vizio.

Il risultato raggiunto in questa sezione e in quella precedente è che proporzionalismo è estremamente problematico sia nel modo di concepire l'azione morale, sia per quanto riguarda il concetto di ragione pratica. Dobbiamo ora occuparci dell'impostazione etica generale che determina entrambi i problemi.

2.4 Teleologia e teleologismo

Possiamo prendere lo spunto dall'articolo di L. Janssens sulla VS[96]. L'autore mette in rilievo giustamente il ruolo di primo ordine svolto nella concezione morale di S. Tommaso d'Aquino dal fine ultimo, in modo che si potrebbe affermare che la rettitudine della volontà deve essere giudicata teleologicamente[97]. Da questo innegabile fatto scaturirebbe che si può dire che esistono atti intrinsecamente cattivi sulla base del loro oggetto o fine prossimo solo se il fine prossimo o l'oggetto è già stato determinato da una prospettiva teleologica. E ciò implicherebbe che non solo si può dire che il fine al quale tende l'agente è un elemento dell'oggetto, ma anche che il fine è l'elemento formale che determina se l'elemento materiale dell'oggetto è o non è materia debito modo disposita[98]. Janssens aggiunge altre analisi, e conclude facendo capire che la sua posizione proporzionalista è perfettamente congruente con il pensiero di S. Tommaso, il che rende poco meno che incomprensibili le critiche rivolte dalla VS al proporzionalismo.

Sull'interpretazione da dare ai concetti di oggetto e di fine nella teoria tomista dell'azione morale ci siamo già soffermati. Ci sembra necessario chiarire adesso i termini "teleologia" ed "etica teleologica", che sono estremamente ambigui. Sfruttando fino in fondo tale ambiguità semantica, Janssens intende dimostrare che l'etica tomistica, poiché è manifestamente "teleologica" in un primo senso che spiegheremo in seguito, deve essere anche proporzionalista o "teleologica" in un secondo senso, il quale in realtà è diverso e addirittura inconciliabile con il primo. Così l'argomentazione di Janssens risulta viziata da un paralogismo. Con maggiore accortezza la VS tiene presente la distinzione che esiste tra i diversi sensi della "teleologia" e perciò, da una parte, afferma che la vita morale "possiede un essenziale carattere 'teleologico', perché consiste nella deliberata ordinazione degli atti umani a Dio, sommo bene e fine (telos) ultimo dell'uomo"[99] e, dall'altra, respinge senza mezzi termini le teorie etiche "denominate 'teleologiche'"[100]. Ci soffermiamo su questo problema perché, al di là dell'obiezione formulata da Janssens, la comprensione della distinzione esistente tra le diverse forme di "teleologia" ci permetterà di capire da un'altra prospettiva quanto è stato detto fino a questo momento.

E' ampiamente condivisa dalla storiografia filosofica l'affermazione che tra le teorie etiche dell'antichità e del medioevo da una parte, e le teorie etiche moderne e contemporanee dall'altra esiste una differenza fondamentale[101]. Le teorie etiche classiche, per esempio quelle di Aristotele e con certe caratteristiche proprie anche quella di S.Tommaso, si sono occupate principalmente del bene supremo o della felicità dell'uomo, vale a dire, della buona riuscita dell'esistenza umana presa come un tutto. Il punto di vista nel quale nasce e mantiene il proprio senso il tema della felicità è quello dell'azione umana, ma vista "dall'interno" del soggetto agente, e pertanto nel suo intrinseco dinamismo intenzionale. Perciò si dice che sono etiche elaborate dalla prospettiva della prima persona, dal punto di vista della persona che agisce[102], che per forza concedono grande attenzione sia al desiderio del bene umano completo che costituisce l'orizzonte dell'agire e il fondamento dinamico della ragione pratica, sia alle virtù che della ragione pratica sono i principi specifici[103] e la garanzia di rettitudine[104]. L'etica della prima persona presuppone che esiste ed è raggiungibile la verità su ciò che è bene per l'uomo[105], e si configura sul piano argomentativo e contenutistico come un'etica delle virtù[106].

L'etica moderna e contemporanea abbandona per diversi e complicati motivi il problema del bene ultimo dell'uomo[107], e centra la sua attenzione sul problema di determinare quale sia l'azione corretta (right) o errata (wrong) e su quello di individuare e fondare le norme necessarie per stabilire tale determinazione. Queste teorie etiche assumono il punto di vista dell'osservatore esterno e del giudice delle azioni altrui: è un'etica elaborata dal punto di vista della terza persona, che perde di vista il dinamismo intenzionale proprio dell'azione morale in quanto tale. L'impostazione fondamentale è la seguente: Tizio ha realizzato l'azione "x", tale azione è lecita o illecita, obbligatoria o moralmente vietata? In questo modo l'etica della terza persona è sul piano argomentativo e contenutistico un'etica degli atti e delle norme, che inoltre vede le azioni umane sempre dall'esterno, in senso assai fisicista[108]. Di fronte a questa moderna etica delle norme o etica normativa, l'etica classica si configura come un'etica teleologica (del telos o fine ultimo dell'uomo) e delle virtù: abbiamo così il primo concetto di teleologia, che chiamerò teleologia pratica[109]. E' questo il significato secondo il quale la VS afferma che la morale cristiana è essenzialmente teleologica.

Vediamo ora come emerge il secondo concetto di teleologia, vale a dire, il senso secondo il quale il proporzionalismo e il consequenzialismo sono chiamati "etiche teleologiche" (la VS impiega l'espressione "teleologismo"). All'interno dell'etica moderna, e come una problematica interna ad essa che riguarda sempre la fondazione delle regole per il giudizio morale o la fondazione del dovere, si è venuta a creare la contrapposizione tra deontologia e teleologia. Sul piano della fondazione dei primi principi, la deontologia è una forma di giustificazione per la quale i principi primi sono derivati in modo da non presupporre nessuno scopo o fine umano ultimo, e nessuna concezione determinata del fine ultimo dell'uomo: "il giusto viene prima del bene non solo in quanto le sue esigenze hanno la precedenza, ma anche in quanto i suoi principi hanno una derivazione indipendente"[110]; in questo senso, il modello classico di deontologia è l'etica di Kant. Sul piano più concreto dell'etica normativa, viene chiamata deontologia ogni concezione etica comprendente certi doveri categorici e certi divieti che hanno precedenza incondizionata su altre preoccupazioni morali e sulle considerazioni di indole finalistica o funzionalistica; in questo senso, oltre a Kant, sono deontologi i liberali attuali che sostengono il primato del giusto sul bene, come per esempio Rawls[111]. Alla deontologia così concepita si oppone su entrambi i piani di riflessione etica la teleologia moderna (consequenzialismo e proporzionalismo), che chiamerò teleologia normativa[112]. Sul piano fondativo, la teleologia normativa sostiene che il sommo bene o felicità è il criterio per stabilire quali sono le azioni giuste e quelle sbagliate: prima si determina che cosa è il bene o il fine, e poi quali sono le azioni giuste o sbagliate, perché il giusto altro non è che la massimizzazione del bene; un buon esempio è l'etica utilitarista di J.S. Mill[113]. Sul piano più concreto del giudizio morale la teleologia normativa è il consequenzialismo[114], secondo il quale gli atti oppure le regole vengono valutati sempre e fondamentalmente dalle loro conseguenze per l'ottimizzazione dello stato complessivo della realtà, dal punto di vista del suo contenuto extra-etico[115]. Si configura in questo modo una nuova figura di etica, impostata come scienza normativa per la produzione di un buon stato di cose[116].

Queste considerazioni ci permettono di formulare quattro osservazioni importanti per il nostro attuale studio. La prima è che la morale cristiana, quale è presentata dalla VS, non può essere considerata in alcun modo come un'etica deontologica. Sbagliano di molto coloro che hanno parlato, a proposito della VS, di un'opzione deontologica o di un dibattito tra l'etica deontologica e quella teleologica[117]. Nella morale cristiana la fondazione e la determinazione di ciò che è giusto non è indipendente dal bene ultimo, come neppure la concezione del bene è indipendente da ciò che è giusto. La morale cristiana scappa a questa alternativa tipica dell'etica delle norme[118]. La morale cristiana è quello che abbiamo chiamato prima una teleologia pratica, che rappresenta un universo morale completamente diverso dalla deontologia. Il fatto che la morale cristiana attribuisca un valore assoluto ad alcune esigenze etiche non significa nulla a questo riguardo, perché tale attribuzione si riscontra in tutti i sistemi etici che non siano completamente relativisti. Anche i proporzionalisti ammettono che le esigenze etiche fondate secondo il loro metodo sono assolute, e non perciò essi sono deontologisti.

La seconda osservazione è che la teleologia normativa, quale è il proporzionalismo e il consequenzialismo, è un modo scientifico di fondare e presentare l'etica che non ha niente a che vedere con la teleologia pratica[119]. Potrebbe sembrare che entrambe hanno in comune almeno l'impostazione generale di indole finalistica[120]. Ma in realtà non è così. Nella teleologia pratica, si pensi per esempio a S. Tommaso, e nella teleologia normativa, si pensi per esempio a J.S. Mill, il concetto di fine ultimo o di felicità sono concepiti in modo tale da risultare inconciliabili. La riflessione morale di J.S. Mill non è interessata a determinare in modo concreto che cosa sia la vita buona dell'uomo, né ammette in generale che assumere un certo tipo di vita personale possa essere oggetto di un'esigenza etica, e meno ancora può accettare che l'assunzione di un tipo di vita costituisca il centro della questione morale. Il concetto di felicità interessa solo in quanto permette di giustificare giudizi sulle azioni esterne (utilitarismo dell'atto) o sulle regole (utilitarismo della regola): il fine o la felicità è sempre e solo, con parole di J.S. Mill, a test of right and wrong, semplicemente un criterio per giudicare se le singole azioni sono corrette o sbagliate, che è l'unica cosa che veramente interessa. Si deve parlare prima del bene perché il giusto sarà definito dopo come la massimizzazione del bene. Se si parla delle virtù sarà soltanto in quanto esse possono essere delle disposizioni personali che facilitano il rispetto della norma. La teleologia pratica sta proprio alle antipode. In essa il fine ultimo è il centro della vita morale; il fine non è un bene che possa essere "massimizzato" dalle azioni giuste[121], né è possibile "dedurre" quali siano tutte le azioni giuste a partire dell'idea del fine; le virtù etiche sono i principi della ragione pratica e il fondamento delle norme etiche[122]. Da queste differenze fondamentali scaturiscono posizioni contrapposte per quanto riguarda l'esistenza di azioni intrinsecamente cattive.

La terza osservazione è che il punto di vista della terza persona, caratteristico della teleologia normativa (consequenzialismo e proporzionalismo) e da ogni etica delle norme, determina il concetto fisicista di azione morale, del quale abbiamo parlato. Per valutare l'adeguamento di un'azione a una norma basta considerare l'azione fondamentalmente dall'esterno. La teleologia pratica invece, in quanto etica delle virtù o della prima persona, deve considerare sempre e soprattutto l'intenzionalità volontaria intrinseca dell'azione umana, perché senza di essa non sarebbe possibile stabilire sempre un rapporto tra l'azione e le virtù, e quindi tra l'azione e l'ordine della retta ragione.

La quarta e ultima osservazione è che il rapporto tra norma da una parte, e azione da fare o da omettere da un'altra, è completamente diverso nella teleologia pratica e nella teleologia normativa. Questa differenza è di estrema importanza sia per capire bene quanto la VS afferma sulle azioni intrinsecamente cattive e le norme negative assolute, sia per capire perché la VS viene accusata di non concedere la dovuta attenzione alle eccezioni e all'epicheia, come vedremo in seguito.

2.5 Norme assolute, eccezioni ed epicheia

Alcuni autori ritengono che la teologia morale cattolica tradizionale, con l'approvazione almeno tacita della Chiesa, ha ammesso delle eccezioni che riguardavano norme che la VS presenta adesso come come norme che rigorosamente valgono semper et pro semper. Sembra che con questa osservazione essi non intendono suggerire direttamente che le eccezioni potrebbero o dovrebbero essere ammesse, ma piuttosto affermare che in passato queste eccezioni sono state pacificamente ammesse e riconosciute, anche se presentate o giustificate in maniera diversa. Si intende presentare, in definitiva, una situazione di fatto con la quale la VS entrerebbe incomprensibilmente in contraddizione. Così si sostiene che sulla base del concetto di epicheia, del principio del doppio effetto oppure attraverso sottili distinzioni concettuali, si riusciva a rendere compatibili il valore assoluto del principio "non uccidere" e la legittima difesa, la pena di morte, certe forme di lasciar morire e certe modalità di auto-sacrificio che hanno il sapore di un suicidio per motivi morali (per esempio, per salvaguardare la castità); il valore assoluto del principio "non rubare" e la liceità di prendere dagli altri i beni necessari per tirarsi fuori dallo stato di estrema necessità; il valore assoluto del comandamento "non mentire" e diverse forme di parlare ambiguo e di restrizioni mentali, ecc.[123]. Secondo questi autori, la morale tradizionale voleva risolvere in questo modo gli stessi problemi che intende risolvere il proporzionalismo, ma lo faceva in modo poco coerente e comprensibile. Anzi —osserva G. Virt— lo faceva in modo tautologico e inconcludente: si impiegavano espressioni linguistiche valutative che davano per risolto in anticipo il problema da risolvere o non lo risolvevano affatto. Se l'assasinio viene definito come un omicidio ingiusto, è chiaro che l'assasinio non sarà mai lecito, ma questo non aiuta a risolvere, per esempio, il problema della legittima difesa, né ci permette di sapere se certi comportamenti concreti sono o non sono un assasinio[124]. G. Virt e K. Hilpert lamentano il silenzio della VS sull'importante virtù dell'epicheia, che dovrebbe consentire di dare alla morale un'impostazione più realistica, e che avrebbe un ruolo importante non solo sul piano delle leggi civili, ma anche su quello dei precetti morali.

Concediamo ben volentieri che un'argomentazione tautologica non è un'argomentazione. Ma per sapere se un'argomentazione morale concreta è tautologica occorre tener presenti alcune caratteristiche peculiari della gnoseologia morale. Se una persona afferma, per esempio, che i rapporti sessuali tra due persone non sposate sono fornicazione e quindi sono moralmente illeciti, perché la fornicazione è un atto contrario alla virtù della castità, si può pensare che la persona non dimostra nulla, perché dà per scontato ciò che sarebbe da dimostrare, vale a dire, non ha dato una risposta alla domanda: perché sempre e in ogni caso tali rapporti sessuali sono da considerare come fornicazione e quindi come contrari alla virtù della castità? E' vero che quella persona non ha fornito un'argomentazione razionale che sostenga la sua tesi, ma questo non implica automaticamente che il suo ragionamento è circolare o infondato. Occorre considerare, infatti, che l'etica è in buona parte un sapere riflessivo, che ha il suo punto di partenza specifico nell'esperienza morale, vale a dire, nell'attività spontanea con cui la ragion pratica dirige la vita morale dell'uomo[125], attività che esiste prima che l'etica si costituisca come disciplina scientifica. La riflessione etica chiarisce, fonda e rigorizza i concetti, i giudizi e le intuizioni morali spontanee, che comunque riescono a cogliere importanti aspetti della realtà morale. Poiché questa non è posta dalla riflessione etica, così neanche il disordine intrinseco dei rapporti sessuali fuori del matrimonio è reso visibile solo dall'argomentazione razionale stringente. Tale disordine è colto dalla ragione pratica a livello pre-scientifico nell'esperienza morale, e questa comprensione fonda l'impiego di una categoria morale valutativa quale quella di fornicazione. E' vero che a questo livello l'impiego della categoria valutativa negativa non ha ricevuto ancora una fondazione logica e scientifica piena, ma questo non significa che il suo impiego non sia fondato in assoluto oppure che esso sia puramente tautologico. La categoria valutativa viene impiegata perché è stato colto il suo fondamento ontologico, vale a dire, la negatività morale di un certo tipo di azioni, e quel "cogliere spontaneo", che a mio avviso è la dimensione gnoseologica della legge morale naturale, giustifica gnoseologicamente l'uso pre-scientifico delle categorie valutative[126]. Si può certamente ammettere che in epoche passate, nelle quali esisteva una maggiore omogeneità culturale e morale nella società, la fondazione scientifica delle proposizioni normative fosse meno necessaria di quanto lo sia oggi, e ciò può spiegare che talvolta sia stata trascurata. Ma tra questo difetto di fondazione scientifica è una morale "tautologica e inconcludente" ci corre molto. D'altra parte, la vecchia morale aveva almeno il vantaggio di rispettare i dati evidenti dell'esperienza morale, il contenuto etico della Rivelazione, nonché quello di non voler ricondurre il bene/male morale al bene/male di natura extra-etica.

Ritengo comunque che per arrivare al cuore del problema occorra considerare il rapporto tra norma morale e azione. Il fondamento di una norma è la moralità dell'azione comandata o vietata, oppure la moralità dell'azione deriva dal suo rapporto con una norma che trova il suo fondamento nel vantaggioso stato di cose derivato dalla regolazione dell'agire in essa contenuto? Nella prospettiva di un'etica delle norme, quale è la prospettiva del proporzionalismo e del consequenzialismo, è vera la seconda parte dell'alternativa. Prima viene la norma, e poi l'azione buona o cattiva. Il problema, caratteristico di ogni etica della terza persona, era già stato posto esplicitamente da Kant quando spiega "il paradosso del metodo di una critica della ragione pratica": "che cioè il concetto del bene e del male non deve essere determinato prima della legge morale (a cui esso in apparenza dovrebbe esser posto a base), ma soltanto (come anche qui avviene) dopo di essa e mediante essa"[127].

Questa è l'impostazione comune a molte leggi e regolamenti civili. La necessità di salvaguardare un certo stato di cose, che certamente contiene dei valori, giustifica una normativa, secondo la quale si distinguono le azioni buone da quelle cattive, azioni che non hanno una positività o negatività intrinseca indipendentemente dalla norma. Perciò possono esserci eccezioni o interpretazioni secondo la epicheia sempre che ci si trova in situazioni concrete nelle quali non rispettare la norma non mette in pericolo il valore che la giustifica. Un buon esempio può essere il codice stradale. L'ordinata circolazione delle autovetture, necessaria per il valore costituito dalla sicurezza dei cittadini, impone per esempio di tenere la destra e di fermarsi davanti al semaforo in rosso, e vieta il contrario. Ma possono esserci eccezioni e anche epicheia: in una domenica di agosto, quando la città è deserta, non ha molto senso aspettare davanti al semaforo, se la visibilità è buona e c'è completa certezza di non correre se stesso e di non far correre ad altri nessun pericolo; nelle stesse condizioni è moralmente possibile tenere la sinistra per alcuni metri in modo da evitare un'irregolarità del fondo stradale, ecc. Tutto ciò è possibile perché non c'è un disordine intrinseco in quelle azioni, che sono buone o cattive soltanto per il loro rapporto ad un regolamento che generalmente è funzionale ad ottenere uno stato di cose vantaggioso o addirittura necessario.

Ma la prospettiva propriamente morale, e senz'altro quella della VS, è un'altra. Al di là degli aspetti logico-formali, ogni norma veramente etica ha un fondamento ontologico, che è la positività o negatività etica intrinseca ad un'azione, che deve essere descritta in modo non fisicista, vale a dire: secondo il suo genus moris e non secondo il suo genus naturae, e pertanto mettendo in luce il tipo di rapporto esistente tra l'intenzionalità intrinseca all'azione stessa (finis operis) e i principi costitutivi della ragione pratica (le virtù). Le norme valide semper et pro semper, di cui parla la VS, sono comprensibili soltanto in questa prospettiva, nella quale rispondono al fatto che esistono azioni con un'identità morale negativa che rimane sempre, perché nella loro intenzionalità volontaria intrinseca c'è un contrasto importante con i principi della ragione pratica (le virtù). Non è esatto dire che queste azioni sono in sé cattive indipendentemente dal loro contesto, perché in realtà sono azioni che portano con sé, e inseparabilmente, un contesto, una rete di relazioni etiche sufficienti a determinare univocamente e invariabilmente la loro moralità essenziale. L'adulterio, per esempio, è un atto che s'inserisce negativamente nella rete di relazioni etiche istaurata dal matrimonio. Più in generale, e in ultima analisi, si avrà un atto intrinsecamente cattivo sempre che viene scelto un comportamento che, in virtù della sua intenzionalità volontaria intrinseca (finis operis), incide negativamente sulla rete di relazioni verso Dio, verso il prossimo o verso se stesso (auto-relazione) determinata dalla carità. La prospettiva assunta dalla VS non è quindi oggettivistica o astratta, ma relazionale, vale a dire, fondata sui rapporti etici concreti nelle quali la persona o le persone sono coinvolte.

Se le azioni vengono considerate nella loro identità intenzionale in rapporto ai principi della ragione pratica, parlare di eccezioni o di epicheia non ha senso. Sarebbe come dire che, per eccezione, si può moralmente ammettere qualche volta un po' di ingiustizia, un po' di lussuria, e via dicendo, forse per arrivare ad un compromesso con le tendenze culturali in atto. Un'altra cosa è il problema che si pone quando le norme non sono ben formulate, per trascuratezza, perché in qualche caso è difficile arrivare ad una formulazione linguistica che colga l'identità morale dell'azione (genus moris) e non solo la sua descrizione fisica, oppure perché ci vuole un'analisi più accurata della natura esatta di un principio della ragione pratica (per esempio, che cosa significa esattamente mentire, perché mentire è male). La VS afferma esplicitamente che "occorre cercare e trovare delle norme morali universali e permanenti la formulazione più adeguata ai diversi contesti culturali, più capace di esprimerne incessantemente l'attualità storica, di farne comprendere e interpretare autenticamente la verità. Questa verità della legge morale  —come quella del 'deposito della fede'—  si dispiega attraverso i secoli: le norme che la esprimono restano valide nella loro sostanza, ma devono essere precisate e determinate eodem sensu eademque sententia secondo le circostanze storiche dal Magistero della Chiesa, la cui decisione è preceduta e accompagnata dallo sforzo di lettura e di formulazione proprio della ragione dei credenti e della riflesione teologica"[128].

La tesi che il fondamento ontologico delle norme negative propriamente morali è la negatività intrinseca dell'azione vietata, e non invece uno stato di cose al quale sarebbe generalmente funzionale la norma, ci permette di chiarire diversi aspetti del problema che stiamo trattando. Forse il più importante è che sotto una norma rientrano soltanto azioni singole che possiedono la stessa identità morale specifica o, almeno, la stessa identità morale generica. In nessun modo possono rientrare azioni fisicamente simili ma umanamente e moralmente eterogenee, anche se si tratta di azioni che finiscono per produrre uno stesso stato di cose. Alcuni autori non lo tengono presente, e allora considerano, per esempio, la liceità della legittima difesa come un'eccezione al principio "non uccidere", che pertanto non sarebbe valido semper et pro semper[129]. Mi sia permessa un'osservazione che potrebbe sembrare una battuta: porre così il problema è come dire che la liceità dell'atto coniugale è un'eccezione al principio "non fornicare". Dal punto di vista morale e anche da quello semplicemente umano e psicologico, tra l'uccisione diretta di un innocente e la legittima difesa esiste una differenza non minore di quella tra la fornicazione e le relazioni coniugali. Qualcuno potrà dire che per colui che deve giudicare dall'esterno una concreta azione, qualche volta può non essere facile sapere se essa è uccisione diretta o legittima difesa. Ma questa è una questione di fatto che riguarda appunto il giudizio dall'esterno, ma che non tocca la sostanza morale del problema. Più difficile è distinguere tra la fornicazione, l'adulterio e le relazioni coniugali per chi dovesse giudicare l'azione senza conoscere l'identità e la condizione civile degli interessati.

Mi sembra che quasi tutti i problemi sollevati dagli autori citati all'inizio di questa sezione derivano semplicemente dalla loro prospettiva normativista e dalla conseguente considerazione fisicista dell'azione umana, che erratamente attribuiscono anche alla VS. I proporzionalisti ritengono che la VS, quando parla di norme valide semper et pro semper, sta parlando di norme secondo le quali sono intrinsecamente cattive tutte le azioni che finiscono per produrre in qualche modo (anche involontariamente) uno stato di cose[130]. Ma questo non è vero. Abbiamo visto che la VS usa sempre un linguaggio che significa tutta un'altra cosa. I comportamenti intrinsecamente cattivi sono visti come oggetto di scelta[131], vale a dire, come scelte che hanno una precisa identità intenzionale riconosciuta dalla ragione pratica e accettata dalla volontà. Sembra che alcuni autori non lo abbiano capito, e continuano a considerare come moralmente identiche o analoghe le azioni che producono un identico o analogo stato di cose, e così fanno rientrare sotto lo stesso enunciato normativo l'omicidio e la legitima difesa, la menzogna e la custodia di un segreto, il suicidio e il martirio, senza neanche tener conto delle distinzioni stabilite, per esempio sull'omicidio, dal diritto penale, che in teoria avrebbe un metodo di analisi meno sensible all'intenzionalità volontaria intrinseca dell'azione di quello della morale. Forse pensano di poter dimostrare così che non esistono norme assolute, ma l'unica cosa che mettono in evidenza è una teoria dell'azione inficiata da un inaccettabile fisicismo.

E' vero che nella pratica molte volte è necessario poter riferirsi ai comportamenti umani con una certa brevità, senza poter dare esaurienti spiegazioni sull'intenzionalità intrinseca dell'azione (finis operis). Questo pone certi problemi, soprattutto quando sono in questione gesti la cui intrinseca intenzionalità volontaria non è evidente o non è univoca. Cioè, esistono casi in cui, per colui che deve giudicare, è difficile capire quale è il finis operis. Non si può escludere che in passato talvolta si abbia cercato di risolvere questa difficoltà pratica con soluzioni di tipo fisicistico, e probabilmente sarà necessario lavorare ancora per risolvere in modo soddisfacente certi problemi di analisi dell'atto umano[132]. Ma allo stesso tempo mi sembra di dover dire che gli autori che a questo riguardo hanno criticato la VS non hanno avanzato nessuna proposta concreta. Piuttosto insistono senza stancarsi nella loro considerazione fisicista delle azioni, con il proposito di oscurare quelle cose che già erano chiare. Per essere più espliciti: ripetono senza stancarsi che l'azione "prendere un farmaco anovulatorio in sé" non è intrinsecamente cattiva (cosa peraltro ben facile da capire) con l'intenzione  —strumentale— di mettere in discussione la illiceità delle azioni che veramente sono contraccezione, la cui moralità  —secondo loro—  andrebbe discussa invece volta per volta.

Si può notare, per concludere, che la radice delle incomprensioni di cui ci stiamo occupando è una considerazione estremamente normativista della morale, conseguenza dell'assunzione della prospettiva della terza persona. Le norme etiche sarebbero norme generalmente funzionali per ottenere o salvaguardare stati di cose considerati positivi o, se vogliamo, per tutelare certi valori[133]. Esse non esprimerebbero esigenze essenziali delle virtù del ben vivere, esigenze irrinunciabili di ciò che è bene per l'uomo. Accettata l'impostazione normativista, l'ammissione di eccezioni e l'estensione dell'epicheia alle norme propriamente etiche può essere anche coerente, ma a mio avviso non risponde alla realtà della vita morale umana, e secondo la VS non si adegua alla Rivelazione e alla dottrina della Chiesa. Sarebbe opportuno mettere in discussione quell'impostazione della morale incentrata sullo stato di cose da raggiungere e sulla descrizione fisicista delle azioni. Ciò renderebbe possibile ripensare serenamente alcuni problemi della teoria dell'azione morale, per la cui giusta soluzione l'enciclica Veritatis splendor offre indicazioni metodologiche importanti.



[1] Pubblicato in “Acta Philosophica” 5/1 (1996) 47-75.

[2] "Veritatis splendor" un anno dopo. Appunti per un bilancio (I), in "Acta Philosophica" 4/2 (1995) 233-260.

[3] Per non costringere il lettore a dover consultare continuamente la prima parte di questo articolo, riportiamo ora, per ordine alfabetico, i contributi più specificamente riguardanti il nostro oggetto di studio che teniamo presenti: B. Bennàsar, La razón moral es también teleológica, in "Moralia. Revista de ciencias morales", 17/1 (1994) 51-56; D. Composta, Tendencias de la teología moral en el posconcilio Vaticano II, in G. del Pozo Abejón (cur.), Comentarios a la "Veritatis splendor", BAC, Madrid 1994, pp. 301-340; J. Finnis e G. Grisez, Gli atti intrinsecamente cattivi, in Lettera enciclica "Veritatis splendor" del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II. Testo e commenti, Quaderni de "L'Osservatore Romano" 22, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994, pp. 227-231; J. Finnis, Beyond the Encyclical, in "The Tablet" (8 gennaio 1994) 9-10; J. Fuchs, Die sittliche Handlung: das intrinsece malum, in D. Mieth (cur.), Moraltheologie im Abseits? Antwort auf die Enzyklika "Veritatis splendor", Quaestiones disputatae 153, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1994, pp. 177-193; Idem, Das Problem Todsünde, in "Stimmen der Zeit" 212/2 (1994) 75-86; G. Grisez, "Veritatis splendor": Revealed truth vs. dissent, in "Homiletic and Pastoral Review" (marzo 1994) 8-17; G. Gutiérrez, La "Veritatis splendor" y la ética consecuencialista contemporánea, in G. Del Pozo Abejón (cur.), Comentarios ..., cit., pp. 233-262; K. Hilpert, Glanz der Wahrheit: Licht und Schatten, in "Herder Korrespondenz" 47 (1993) 623-630; B. Honings, Il discernimento di alcune dottrine morali ed etiche. Una lettura della "Veritatis splendor", in G. Russo (cur.), Veritatis splendor. Genesi, elaborazione, significato, Edizioni Dehoniane Roma, Roma 1994, pp. 131-153; L. Janssens, Teleology and proportionality. Thoughts about the Encyclical "Veritatis splendor", in "Bijdragen, tijdschrift voor filosofie en theologie" 55 (1994) 118-132; B. Kiely, L'atto morale nell'enciclica "Veritatis splendor", in VV.AA., Veritatis splendor. Atti del Convegno dei Pontifici Atenei Romani (29-30 ottobre 1993), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994, pp. 108-118; P. Knauer, Zu Grundbegriffen der Enzyklika "Veritatis splendor", in "Stimmen der Zeit" 212/1 (1994) 14-26; H. Lepargneur, Os conceitos da "Veritatis splendor", in "Revista Eclesiastica Brasileira" 213 (1994) 5-35; W.E. May, Theologians and Theologies in the Encyclical, in "Anthropotes" 10/1 (1994) 39-59; Idem, Los actos intrínsecamente malos y la enseñanza de la encíclica "Veritatis splendor", in "Scripta Theologica" 26/1 (1994) 199-219; R.A. McCormick, Killing the patient, in "The Tablet" (30 ottobre 1993) 1410-1411; Idem, Some early reactions to "Veritatis splendor", in "Theological Studies" 55/3 (1994) 481-506; R. McInerny, Locating Right and Wrong, in "Crisis" (dicembre 1993)  37-40; A. MacIntyre, How can we learn what "Veritatis splendor" has to teach?, in "The Thomist" 58/2 (1994) 171-195; E. Molina, La encíclica "Veritatis splendor" y los intentos de renovación de la teología moral en el presente siglo, in "Scripta Theologica" 26/1 (1994) 123-154; M. Rhonheimer, "Intrinsically Evil Acts" and the Moral Viewpoint: Clarifying a Central Teaching of "Veritatis splendor", in "The Thomist" 58/1 (1994) 1-39; A. Rodríguez Luño, Teleologismo, consequenzialismo e proporzionalismo, in Lettera enciclica "Veritatis splendor" del Sommo Pontefice..., cit., pp. 223-226; Idem, El acto moral y la existencia de una moralidad intrínseca absoluta, in G. Del Pozo Abejón (cur.), Comentarios ..., cit., pp. 693-714; H. Seidl, L'atto morale: oggetto, circostanze e intenzione, in R. Lucas Lucas (cur.), "Veritatis splendor". Testo integrale e commento filosofico-teologico, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 335-351; J.E. Smith, Veritatis splendor, in "Commonweal" 120/18 (1993) 14-15; G. Virt, Epikie und sittliche Selbstbestimmung, in D. Mieth (cur.), Moraltheologie..., cit., pp. 203-220; W. Wolbert, Die "in sich schlechten" Handlungen und der Konsequentialismus, in D. Mieth (cur.) Moraltheologie ..., cit., pp. 88-109; C. Zuccaro, La "Veritatis splendor". Una triplice chiave di lettura, in "Rivista di Teologia Morale" 100/4 (1993) 567-581. Teniamo presenti anche alcuni studi non considerati nella prima parte di questo articolo: M. Vidal, La proposta morale di Giovanni Paolo II. Commento teologico-morale all'enciclica "Veritatis splendor", EDB, Bologna 1994; M. Rhonheimer, Intentional actions and the meaning of object: A reply to R. McCormick, in "The Thomist" 59/2 (1995) 279-311; Idem, Minaccia di stupro e prevenzione: un'eccezione?, in "La Scuola Cattolica" 123 (1995) 75-90; e infine l'editoriale pubblicata da "L'Osservatore Romano", 20-V-1995, con il titolo La recezione della "Veritatis splendor" nella letteratura teologica.

[4] Cf. VS, nn. 4-5: Giovanni Paolo II intende "richiamare alcune verità fondamentali della dottrina cattolica" che riguardano "i fondamenti stessi della teologia morale", e che sono "della massima importanza per la Chiesa e la vita di fede dei cristiani", giacché il loro oscuramento o negazione, "anche in Seminari e Facoltà teologiche" ha dato luogo a "una vera crisi, tanto gravi sono le difficoltà che ne conseguono per la vita morale dei fedeli e per la comunione nella Chiesa, come pure per un'esistenza sociale giusta e solidale".

[5] VS, nº 76.

[6] Cf. VS, nº 29.

[7] VS, nº 78.

[8] Cf. VS, nº 29.

[9] VS, nº 80

[10] J. Finnis — G. Grisez, Gli atti intrinsecamente cattivi, cit., p. 227.

[11] Alcuni esempi: "E' da respingere la tesi (...) secondo cui sarebbe impossibile qualificare come moralmente cattiva (...) la scelta deliberata di alcuni comportamenti o atti determinati" (VS, nº 79); "le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto 'soggettivamente' onesto o difendibile come scelta" (VS, nº 81); "l'opinione che ritiene impossibile qualificare moralmente come cattiva secondo la sua specie la scelta deliberata di alcuni comportamenti o atti determinati" (VS, nº 82); "la moralità non può essere giudicata se si prescinde dalla conformità o dalla contrarietà della scelta deliberata di un comportamento concreto (...)" (VS, nº 67); "Siffatte teorie non sono però fedeli alla dottrina della Chiesa, allorché credono di poter giustificare, come moralmente buone, scelte deliberate di comportamenti contrari ai comandamenti della legge divina e naturale" (VS, nº 76) (sott. mie). Sul significato di queste espressioni linguistiche cfr. il mio contributo El acto moral y la existencia de una moralidad intrínseca absoluta, cit., pp. 702 ss.

[12] VS, nº 81.

[13] Cf. VS, nº 79.

[14] Cf. VS, nº 82.

[15] Cf. per esempio VS, nn. 52, 96, 97 e 99.

[16] La VS intende per consequenzialismo la concezione etica che "pretende di ricavare i criteri della giustezza di un determinato agire solo dal calcolo delle conseguenze che si prevedono derivare dall'esecuzione di una scelta" (VS, nº 75). Per proporzionalismo intende invece la concezione etica che "ponderando tra loro valori e beni perseguiti, si focalizza piuttosto sulla proporzione riconosciuta tra gli effetti buoni e cattivi, in vista del 'più grande bene' o del 'minor male' effettivamente possibili in una situazione particolare" (VS, nº 75).

[17] VS, nº 82. La citazione interna è della Dich. Dignitatis humanae, nº 7.

[18] VS, nº 76.

[19] VS, nº 78.

[20] Ibidem. Su questo aspetto si vedano soprattutto W. May, Los actos intrínsecamente malos y la enseñanza de la encíclica "Veritatis splendor", cit. e M. Rhonheimer, "Intrinsically Evil Acts" and the Moral Viewpoint: Clarifying a Central Teaching of "Veritatis splendor", cit.

[21] VS, nº 78. La citazione interna è del nº 1761 del Catechismo della Chiesa Cattolica.

[22] VS, nº 78.

[23] VS, nº 77.

[24] Ci permettiamo di rimandare il lettore al nostro studio El acto moral y la existencia de una moralidad intrínseca absoluta, cit., pp. 693-702, oppure Teleologismo, consequenzialismo e proporzionalismo, cit., pp. 223-226.

[25] Cf. "Veritatis splendor" un anno dopo. Appunti per un bilancio (I), cit., pp. 241-242.

[26] Questo è lo scopo dialettico per il quale alcuni autori, con diverse sfumature e da svariate prospettive, tirano in ballo l'insegnamento della Chiesa sulla contraccezione, pur non essendo questo un tema di morale fondamentale né un argomento trattato specificamente dalla VS. Cf. per esempio R.A. McCormick, Killing the patient, cit., p. 1411; Idem, Geburtenregelung als Testfall der Enzyklika, cit., p. 272; K. Hilpert, Glanz der Wahrheit: Licht und Schatten, cit., p. 629; L. S. Cahill, Veritatis splendor, in "Commonweal" 120/18 (1993) 16; W. Kerber, Veritatis splendor, in "Stimmen der Zeit" 211/12 (1993) 794.

[27] Ecco letteralmente la sintesi offerta da McCormick: "Now let us turn to the papal letter. There we read, of proportionalism: 'Such theories are not faithful to the Church's teaching, when they believe they can justify, as morally good, deliberate choices of kinds of behaviour contrary to the commandaments of the divine and natural law' (76). Later in 81 we read: 'If acts are intrinsically evil, a good intention or particular circumstances can diminish their evil, but they cannot remove it'" (Killing the patient, cit., p. 1411). La stessa sintesi è riproposta in Some early reactions..., cit., pp. 490-491.

[28] "In brief, the encyclical repeatedly and inaccurately states of proportionalism that it attempts to justify morally wrong actions by a good intention. This, I regret to say, is a misrepresentation, what I earlier called a caricature. If an act is morally wrong, nothing can justify it" (Some early reactions..., cit., p. 491). Nello stesso senso si veda anche Killing the patient, cit., p. 1411.

[29] Cf. la sezione 1.2

[30] La recezione della "Veritatis splendor" nella letteratura teologica, "L'Osservatore Romano", 20 maggio 1995, p. 1.

[31] Ibidem.

[32] Ibidem.

[33] Cf. supra, sezione 1.2

[34] Cf. R.A. McCormick, Killing the patient, cit., 1410.

[35] "I believe all proportionalits would admit this if the object is broadly understood as including all the morally relevant circumstances" (Killing the patient, cit., p. 1411).

[36] R.A. McCormick, Some early reactions..., cit., p. 501.

[37] "Objekt der sittlichen Entscheidung für eine Handlung ist also nicht der (z.B. physische) Grundakt (in seiner ethischen Relevanz, wie Tötung, Falschaussage, Aneignung, sexuelle Stimulation) als solcher, sondern das Gesamt von Grundakt, besonderen Umständem und der gewollten oder (mehr oder weniger) absehbaren Folgen, also niemals aus den Folgen allein, wie nicht selten beahuptet wird" (J. Fuchs, Das Problem Todsünde, cit., p. 83). In Die sittliche Handlung: das intrinsece malum, cit., pp. 181-185, J. Fuchs considera che la dottrina circa le fonti della moralità presenterebbe in modo parziale la natura dell'oggetto. Questo sarebbe costituito in realtà dall'insieme formato dall'oggetto, il fine e le circostanze; perciò si può dire che tutti i tre elementi hanno rilevanza per l'azione umana e, dovutamente misurati e ponderati, entrano nella valutazione morale di questa. Tutto ciò non significa tuttavia che l'oggetto sia semplice "materia" dell'azione, senza rilevanza o significato per essa. Osservazioni analoghe si trovano in P. Knauer, Zu Grundbegriffen der Enzyklika "Veritatis splendor", cit.

[38] Cf. Killing the patient, cit., p. 1411.

[39] Cf. Killing the patient, cit., p. 1411.

[40] J. Fuchs, Il carattere assoluto delle norme morali operative, in Idem, Responsabilità personale e norma morale, EDB, Bologna 1978, p. 110. Questo contributo fu pubblicato prima in tedesco: Der Absolutheitscharakter sittlicher Handlungsnormen, in H. Wolter (ed.), "Testimonium Veritati". Philosophische und theologische Studien zu kirchlichen Fragen der Gegenwart, Frankfurt 1971, pp. 211-240.

[41] J. Fuchs, Il carattere assoluto..., cit. p. 111. Fuchs segnala che le ultime frasi rispondono anche al pensiero di Van der Marck, Van der Poel, e Knauer.

[42] Ibid., p. 112.

[43] Cf. Ibidem.

[44] Cf. soprattutto W. May, Los actos intrínsecamente malos y la enseñanza..., cit.; M. Rhonheimer, "Intrinsically Evil Acts"..., cit. e Intentional actions and the meaning of object..., cit.; e A. Rodríguez Luño, El acto moral y la existencia de una moralidad intrínseca absoluta, cit.

[45] Qui il termine "intenzionale" deriva da "intenzionalità", e non da ciò che la manualistica chiama "intenzione". Come ho scritto altrove, "es importante no confundir la 'intencionalidad' con la 'intención'. La intencionalidad es una característica esencial de la voluntad, por lo que lo es también de todos sus diversos actos: intención, elección, consentimiento, etc. La intención es, en cambio, sólo uno de los actos de que es capaz la voluntad humana. La voluntad tiene otros actos, que también son intencionales, pero que son bien diversos del acto llamado intención. Todo acto de la voluntad es intencional, pero no todo acto voluntario intencional es un acto de intención" (A. Rodríguez Luño, El acto moral y la existencia de una moralidad intrínseca absoluta, cit., pp. 703-704). Per maggiori chiarimenti sulle caratteristiche generali dell'intenzionalità della volontà, diversa in parte di quella dell'intelligenza, cfr. A. Rodríguez Luño, Etica, Le Monnier, Firenze 1992, n. 79; sui diversi atti della volontà, cfr. i nn. 80-81 e 95-97 dello stesso libro.

[46] "The problem is that 'physical act' plus 'intention' (defined by some 'reason') will never result in a 'intentional action'. 'Intentional action' is a concept belonging to action theory, not to moral casuistry. It's not part of a theory about to combine 'reasons' and 'intentions' in order to normatively justify an action (that is, to know whether it is 'allowed' and right or 'illicit' and wrong). The concept of 'intentional action' expresses the very nature of human acting. So one has to talk about the acting person and about what's going on in his or her will when he or she acts. The discourse will be about choice and about intention involved in human act, that is, in chosen acts (or behaviors, to use the encyclical's term)" (M. Rhonheimer, Intentional actions and the meaning of object, cit., pp. 286-287).

[47] Cfr. A. Rodríguez Luño, Etica, cit., nn. 87-92.

[48] Cf. VS, nº 80.

[49] Cf. V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, Unione Tipografico-editrice Torinese, Torino 1937, vol. VIII, pp. 19 ss. e 120 ss.

[50] Ibid., p. 21.

[51] Cf. art. 43 CP, e V. MANZINI, Trattato..., cit., p. 122.

[52] V. MANZINI, Trattato..., cit., p. 131.

[53] Cf. VS, nº 79.

[54] Cf. M. Rhonheimer, Intentional actions and the meaning of object..., cit. pp. 284-285. Ciò che noi chiamiamo qui intenzionalità, Rhonheimer lo chiama intenzione, seguendo l'uso terminologico proposto da G.E.M. Anscombe (Intention, 2ª ed., Blackwell, Oxford 1963). La sostanza è la stessa, ma noi vorremmo evitare nel lettore la confusione puramente linguistica con la intentio tomista (Summa Theologica, I-II, q. 12), che mira al finis operantis. L'intenzionalità di cui parliamo è costitutiva dell'electio tomista (Summa Theologiae, I-II, q. 13), che corrisponde a ciò che Rhonheimer chiama azione-base intenzionale (Cf. M. Rhonheimer, La prospettiva della morale, Armando, Roma 1994, pp. 85 ss.).

[55] Summa Theologiae, I-II, q. 18, a. 10.

[56] Ibid., I-II, q. 19, a.1, ad 3.

[57] Ibid., I-II, q. 19, a. 3.

[58] Ibid., I-II, q. 20, a. 1, ad 1.

[59] Cf. VS, nº 78.

[60] Cf. W. May, Los actos intrínsecamente malos..., cit., pp. 200-207; M. Rhonheimer, Intentional actions and the meaning of object..., cit., pp. 284-285; A. Rodríguez Luño, El acto moral y la existencia de una moralidad intrínseca absoluta..., cit., pp. 706 ss.

[61] VS, nº 79.

[62] VS, nº 78.

[63] Ibidem.

[64] VS, nº 78.

[65] Vedi sopra la citazione 41.

[66] Cf. R.A. McCormick, Geburtenregelung als testfall der Enzyklika, cit., p. 272.

[67] "Actus coniugalis et adulterium, secundum quod comparantur ad rationem, differunt specie, et habent effectus specie differentes: quia unum eorum meretur laudem et praemium, aliud vituperium et paenam. Sed secundum quod comparantur ad potentiam generativam, non differunt specie. Et sic habent unum effectum secundum speciem" (S. Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q. 18, a. 5, ad 3).

[68] Vedi sopra gli esempi tratti dal codice penale italiano, e anche la ragione indicata nella nota 45. Cfr. anche A. Rodríguez Luño, Etica, cit., nn. 105-107.

[69] Cf. Summa Theologiae, I-II, q.1, a.3, ad 3.

[70] Mi sembra che vada in questo senso l'argomentazione svolta da J. Fuchs, Die sittliche Handlung: das intrinsece malum, cit., p. 183.

[71] In Geburtenregelung als testfall der Enzyklika, cit., pp. 272, McCormick spiega che per la VS la contraccezione è indubbiamente un atto "cattivo in se stesso", nel senso di cattivo "sempre e senza eccezioni", cattivo ex objecto (nessuna circostanza o intenzione può modificare tale malizia oggettiva). Da qui nascono però —aggiunge McCormick— alcune inconsistenze se si vuole capire l'oggetto della contraccezione: in senso stretto tale oggetto sarebbe soltanto una materia circa quam, ma allora si dovrebbe aggiungere qualcosa per renderlo più chiaramente cattivo, come sarebbe l'espressione "contro il bene del matrimonio", così come l'oggetto del rubare veniva qualificato non semplicemente come "l'impossessarsi del bene altrui", ma si aggiungeva "contro la volontà comprensibile (einsehbar) di un altro", L'espressione "atto cattivo in se stesso a causa dell'oggetto" —conclude Mc Cormick— è poco utile e inconsistente.

[72] Paolo VI, Enc. Humanae vitae, nº 14.

[73] Non posso soffermarmi per illustrare la distinzione a livello di intenzionalità basica (finis operis). Si veda lo studio di M. Rhonheimer, Minaccia di stupro e prevenzione: un'eccezione?, cit.

[74] Cf. S. Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q. 18, aa. 10-11. Il ragionamento svolto nei due articoli dipende dalla tesi formulata all'inizio dell'articolo 10: "ita species moralium actuum constituuntur ex formis prout sunt a ratione conceptae".

[75] Cf. Etica, cit., nn. 252-253.

[76] La recezione della "Veritatis splendor" nella letteratura teologica, cit., p. 1.

[77] Cf. VS, nº 78.

[78] McCormick, in dialogo critico con altri autori, non vede perché ogni concreta scelta di dire il falso o di togliere la vita implichi necessariamente e direttamente il rifiuto del bene basico della verità o del bene della vita: "Whatever the case, this opens up on a key question to be put to Rhonheimer: Why, in choosing to kill a person or deceive a person, does one necessarily 'take a position with his will with regard to good and evil'? One could understand why if the description of the action already includes the wrong-making characteristics. For Rhonheimer in at least one case it does. He defines theft as misappropriation of another's goods. Finnis and Grisez have encountred this same question in the past. Why, it has been asked, does every concrete choice to speak a falsehood or take a life necessarily involve one in directly rejecting the basic good of truth itself or the good of life?" (R.A. McCormick, Some early reactions..., cit., pp. 501-502). Se nell'espressione "choosing to kill a person" rientra anche la legittima difesa, McCormick ha indubbiamente ragione, ma allora tale espressione è moralmente inadeguata, perché comprende azioni morali essenzialmente diverse ed è pertanto ambigua, e perché nella legittima difesa non si sceglie la morte di una persona: "illicitum est quod homo intendat occidere hominem ut seipsum defendat", anche se può essere lecito "occidere aliquem se defendendo" (S. Tommaso, Summa Theologiae, II-II, q. 64, a.7).

[79] VS, nº 78.

[80] VS, nº 78.

[81] Nº 1761; cf. VS, nº 78.

[82] In duo praecepta caritatis et in decem legis praecepta. De dilectione Dei, in Opuscula theologica, II, n. 1168, Ed. Taurinensis (1954), 250. Cf. VS, nº 78.

[83] Cf. per esempio B. Schüller, La fondazione dei giudizi morali. Tipi di argomentazione etica nella teologia morale cattolica, Cittadella Editrice, Assisi 1975, pp. 62-74.

[84] Cf. Ibid., pp. 66 ss.

[85] Ibid., p. 88.

[86] Ibid., p. 71.

[87] Cf. Ibid., p. 62.

[88] Ibid., p. 72.

[89] E' l'esempio proposto da B. Schüller, Ibid., p. 69.

[90] Nº 1761; cf. VS, nº 78.

[91] Teniamo certamente presente che in alcuni casi più intrincati la conoscenza morale concreta può essere errata a causa di un errore di natura puramente intellettuale. In questo caso si dà comunque una rottura dell'unità della ragione pratica, sebbene involontaria e incolpevole. Ma qui parliamo criticamente di un metodo di analisi morale per il quale la rottura diventa una regola generale.

[92] "Morali autem virtuti coniungitur prudentia intellectualis virtus existens, secundum quamdam affinitatem, et e converso, quia principia prudentiae accipiuntur secundum virtutes morales, quarum fines sunt principia prudentiae" (In decem libros Ethicorum Aristotelis ad Nicomachum Expositio, 3ª ed., Marietti, Torino-Roma 1964, lib. X, lect. 12, n.2114). "Ea ad quae inclinant virtutes morales, se habent ad prudentiam sicut principia: non autem factibilia se habent ad artem sicut principia, sed solum sicut materia" (Summa Theologiae, I-II, q.65, a.1, ad 4). Cf. A. Rodríguez Luño, La scelta etica. Il rapporto tra libertà e virtù, Ares, Milano 1988, pp. 127 ss. e anche Etica, cit., nn. 178 e 224-226.

[93] "Principalitas virtutis moralis in electione consistit" (De Veritate, 10ª ed., Marietti, Torino-Roma 1965, q. 22, a. 15, ob. 3). "Haec enim cognitio ad electionem requiritur, in qua principaliter consistit moralis virtus" (Scriptum super Sententiis, ed. Vivès, Paris 1872-1880, lib. III, d. 35, q. 1, a. 3, sol. II). "Proprium virtutis moralis est facere electionem rectam" (Summa Theologiae, I-II, q. 65, a. 1). "Electio maxime videtur esse propria virtuti" (In decem libros Ethicorum..., lib. III, lect. 5, n. 432). Cf. A. Rodríguez Luño, La scelta etica..., cit., pp. 25-33 e 142-145, e Etica, cit., nn. 211-213.

[94] Cf. Summa Theologiae, I-II, q.58, aa. 4-5, e De Veritate, q.5, a. 1. La distinzione tra l'atto intenzionale e l'atto elettivo delle virtù etiche è ampiamente studiata da A. Rodríguez Luño, La scelta etica..., cit.

[95] La ragione di per sé funziona bene, anche in morale. S. Tommaso afferma perciò che "perversitas enim rationis repugnat naturae rationis" (In decem libros Ethicorum..., lib. II, lect. 2, n. 257), e anche che "corrupta ratio non est ratio, sicut falsus syllogismus non est syllogismus" (Scriptum super Sententiis, lib. II, d. 24, q. 3, a. 3, ad 3).

[96] Cf. Teleology and proportionality. Thoughts about the encyclical "Veritatis splendor", cit.

[97] "Rectitudo voluntatis est per debitum ordinem ad finem ultimum" (Summa Theologiae, I-II, q.4, a.4, c.).

[98] Cf. Teleology and proportionality ..., cit., p. 129.

[99] VS, nº 73.

[100] VS, nº 74; cf. anche nº 79.

[101] Cf. V.J. Bourke, Storia dell'etica. Esposizione generale della storia dell'etica dai primi pensatori greci fino ad oggi, Armando, Roma 1972, p. 8; H. Reiner, Etica. Teoria e storia, Armando, Roma 1971, pp. 13-15. Per aspetti più specifici, cf. E. Tugendhat, Problemi di etica, Einaudi, Torino 1987; J. Habermas, Teoria della morale, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 81 ss. L'espressione "etica moderna e contemporanea" non viene impiegata qui in un senso meramente cronologico per designare tutte e ciascuna delle etiche elaborate durante l'età moderna, ma come categoria storiografica da capire nel contesto del dibattito tra i sostenitori dell'etica delle virtù e dell'etica del dovere, che in questi ultimi trenta anni sta impegnando studiosi delle aree culturali anglosassoni e tedesca come G.E.M. Anscombe, I. Murdoch, E. Pincoffs, A. MacIntyre, S. Hauerwas, W. Frankena, M. Baron e altri ancora. Per una visione completa della bibliografia, cf. G. Abbà, Felicità, vita buona e virtù. Saggi di filosofia morale, LAS, Roma 1989, cap. II.

[102] Cf. VS, nº 78.

[103] Cf. S. Tommaso d'Aquino, In decem libros Ethicorum..., lib. X, lect. 12, n. 2114; e Summa Theologiae, I-II, q. 65, a.1, ad 4.

[104] Cf. Summa Theologiae, I-II, q.58, a. 5.

[105] Adoperando il linguaggio della VS, diremo che l'etica della prima persona presuppone che si può dare una risposta vera alla "domanda di pienezza di significato per la vita" (VS, nº 7).

[106] Scrive G. Abbà che "Aristotele inaugurò l'etica come specifica disciplina filosofica, impostandola come ricerca sulla vita migliore da condurre, quindi sulle virtù del ben vivere" (G. Abbà, Figure di etica: la filosofia morale come ricerca delle regole per la collaborazione sociale, in "Salesianum" 57 (1995) 253).

[107] Ho tracciato una visione di insieme di questi motivi nel mio contributo Significato della "Veritatis splendor" per l'etica contemporanea, in G. Russo (cur.), "Veritatis splendor". Genesi, elaborazione, significato, Edizioni Dehoniane Roma, Roma 1994, pp. 67-83, che andrebbe integrata con la considerazione delle difficoltà che l'etica moderna, specialmente quella kantiana, vede nell'etica classica: cf. quanto ho scritto sull'argomento in Etica, cit., nn. 150-155.

[108] Per una visione organica della differenze strutturali e contenutistiche tra l'etica della prima persona e l'etica della terza persona, cf. A. Rodríguez Luño, Etica, cit., capp. VII e VIII.

[109] La denominazione mi sembra giustificata perché la teleologia classica risponde, come si è detto prima, al dinamismo intenzionale proprio dell'azione morale (praxis) quando essa è vista dalla prospettiva della persona che agisce.

[110] M. Sandel, Il liberalismo e i limiti della giustizia, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 12-13.

[111] Cf. J. Rawls, Una teoria della giustizia, 5ª ed., Feltrinelli, Milano 1993, paragrafo 5.

[112] La denominazione risponde al fatto che questo secondo tipo di teleologia risponde ai problemi di fondazione caratteristici delle etiche della terza persona o etiche delle norme.

[113] Cf. L'utilitarismo, Cappelli, Bologna 1991, cap. I. Si tenga conto però che non ogni etica teleologica è necessariamente utilitarista in senso rigoroso.

[114] Cf. M. Sandel, Il liberalismo e i limiti della giustizia, cit. p. 13.

[115] Si veda per esempio la descrizione fornita dal teologo moralista B. Schüller: "Secondo il primo tipo di argomentazione, un modello di comportamento viene giudicato dalle sue conseguenze. Un'azione o una omissione è moralmente giusta quando le sue conseguenze buone prevalgono su quelle cattive. La forma di giudizio morale emesso in questa prospettiva si chiama 'teleologica'. Se il giudizio morale su un modello di comportamento non viene dato affatto o comunque non esclusivamente alla luce delle sue conseguenze, si parla spesso di giudizio etico 'deontologico'" (La fondazione dei giudizi morali, cit., p. 109). Questa terminologia, come spiega Schüller, procede da C.D. Broad, Five Types of Ethical Theories, 9ª ed., London 1967, pp. 206 s.

[116] Cf. G. Abbà, Figure di etica..., cit., p. 254.

[117] Cf. per esempio H. Lepargneur, Os conceitos da "Veritatis splendor", cit., p. 33; W. Wolbert, Die 'in sich schlechten' Handlungen und der Konsequentialismus", cit., p. 98.

[118] Non è possibile soffermarsi su questo punto, che è assai complicato. Su esso si veda A. Rodríguez Luño, Etica, cit., nn. 44 in fine, 146 in fine, 152 in fine, 160; R. Spaemann, La responsabilità personale e il suo fondamento, in AA.VV., Etica teleologica o etica deontologica? Un dibattito al centro della teologia morale odierna, CRIS Documenti, 49/50, Roma 1983, pp. 13-14.

[119] Con questo non intendiamo suggerire che i teologi cattolici che seguono il proporzionalismo non abbiano niente in comune con la morale cristiana prospettata dalla VS. Qui non parliamo dei contenuti, ma delle strutture fondamentali e dei metodi di analisi e di concettualizzazione di due sistemi de presentazione scientifica della morale. Considerati così essi sono completamente diversi, e ritengo che incompatibili. Per quanto riguarda i contenuti, ci sono certamente molti punti comuni, ma anche significativi punti di contrasto; tutti lo sapevamo, e il dibattito sulla VS lo sta confermando.

[120] Lo stesso J.S. Mill, nel capitolo II della sua opera L'utilitarismo, prospetta la possibilità, ben poco convincente, di un "utilitarismo teologico".

[121] Nei confronti di qualsiasi concezione che affermi che il fine o il bene può essere "massimizzato" dalle azioni umane prese nella loro esteriorità e nella loro totalità, occorre ricordare fra l'altro che, come Max Scheler ha messo in rilievo, i beni possono essere "prodotti" dalle azioni quanto più sono periferici ed esterni, quanto più legati al piacere sensibile o comunque al benessere di indole extra-etica (cf. Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, volumen II delle Gesammelte Werke a cura di Maria Scheler, Francke Verlag, Bern 1954, sezione V). Perciò sembra molto difficile evitare che una tale concezione non porti verso una visione edonistica del bene.

[122] Questo ultimo punto richiederebbe un lungo discorso. Basti comunque osservare come è strutturata sulle virtù la morale speciale di S. Tommaso, vale a dire, la II-II pars della Summa Theologiae. Si veda anche la monografia di G. Abbà, Lex et virtus. Studi sull'evoluzione della dottrina morale di san Tommaso d'Aquino, LAS, Roma 1983.

[123] Argomentano in questa linea H. Lepargneur, Os conceitos da "Veritatis splendor", cit., pp. 19-20; K. Hilpert, Glanz der Wahrheit: Licht und Schatten, cit., pp. 626-627; J. Fuchs, Das problem Todsünde, cit., p. 79.

[124] Cf. G. Virt, Epikia und sittliche Selbstbestimmung, cit., pp. 213-218.

[125] Significativa a questo riguardo è la distinzione tra ratio practica in actu exercito e ratio practica in actu signato stabilita da Caetano, Commentario a la "Summa Theologiae", I-II, q. 58, a. 5, VIII, nella edizione leonina della Summa Theologiae, Typographia Polyglotta S.C. De Propaganda Fide, Roma 1891.

[126] Sulla relazione tra esperienza morale ed etica scientifica, e sulla dimensione gnoseologica della legge morale naturale, mi permetto di rimandare il lettore al mio volume Etica, cit., nn. 32-33, 179, 197-198.

[127] Critica della ragione pratica, 9ª ed., Laterza, Roma-Bari 1966, pp. 79-80.

[128] VS, nº 53.

[129] Giovanni Paolo II ha chiarito questo equivoco nella recente enciclica Evangelium vitae, 25-III-1995, nº 55.

[130] I proporzionalisti considerano generalmente che la persona che agisce è ugualmente responsabile di tutte le conseguenze prevedibili. Nell'ambito del loro concetto fisicista di azione, l'intenzionalità e la preterintenzionalità non contano molto, come neppure tengono presente se una conseguenza cattiva dipende dal libero agire di un altro. Neanche considerano che è diversa la responsabilità per una conseguenza non prevista a seconda che essa segua un atto in sé cattivo (è il caso dell'omicidio preterintenzionale secondo il codice penale italiano, che è un effetto non previsto di un'azione illecita: percosse o lesioni) oppure un atto che era moralmente obbligatorio. Per il proporzionalismo tutto sta allo stesso livello.

[131] Vedi sopra i testi citati alla nota 10.

[132] A modo di esempio su quanto si sta facendo in questa linea, mi sembra meritevole di attenzione la delimitazione dell'essenza della menzogna e del principio "non uccidere" proposta da M. Rhonheimer, La prospettiva della morale, cit., pp. 280 ss. Per quanto riguarda la distinzione tra contraccezione e prevenzione dello stupro si veda, dallo stesso autore, Minaccia di stupro e prevenzione..., cit.

[133] Cf. per esempio K.W. Merks, Autonome Moral, in D. Mieth (ed.), Moraltheologie im Abseits?..., cit. pp. 64-66.