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Il PARLAMENTARE CATTOLICO DI FRONTE AD UNA LEGGE GRAVEMENTE INGIUSTA. UNA RIFLESSIONE SUL N. 73 DELL’ENCICLICA «EVANGELIUM VITAE» (2002)[1]

 

Angel Rodríguez Luño

 

1. Introduzione: abrogazione parziale o riduzione del danno?

Il n. 73 dell’enciclica Evangelium vitae (d’ora in avanti EV) affronta il problema di coscienza in cui viene a trovarsi uno o più membri di un’assemblea legislativa qualora il loro voto risultasse determinante per favorire una legge sull’aborto più restrittiva, in alternativa ad una legge più permissiva già in vigore o messa al voto. La soluzione data è ormai nota: «Nel caso ipotizzato, quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all’aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui»[2].

L’intenzionalità profonda di questa soluzione risulta sufficientemente chiara se viene vista nel suo contesto. Spetta alla teologia morale approfondirne la fondazione, sia perché l’insegnamento di questo passo dell’enciclica possa venir capito senza equivoci, sia per facilitarne la corretta applicazione ad altri problemi morali analoghi. Ci si può interrogare, per esempio, se la liceità morale della soluzione proposta dipenda interamente dall’intenzione soggettiva di limitare i danni e, in caso di risposta affermativa, se debba considerarsi moralmente lecita ogni strategia volta alla riduzione del danno (Harm Reduction o Harm Minimisation) indipendentemente dai mezzi adoperati. Ci si può chiedere ancora se è moralmente lecito, in virtù della teoria del male minore, rendersi responsabile della promulgazione di una legge o dell’applicazione di un strategia che, pur essendo in astratto ingiusta, rappresenta un’effettiva diminuzione del male e, perciò, sarebbe da considerare hic et nunc come moralmente accettabile o difendibile.

Allo scopo di offrire una risposta esamineremo in primo luogo il contesto in cui va collocata la soluzione di EV 73, di seguito ci riferiremo a qualche precedente, per passare dopo a esplicitarne il fondamento e le possibili applicazioni.

2. Il contesto: l’atteggiamento da tenere nei confronti delle leggi gravemente ingiuste

Qui intendiamo per leggi civili gravemente ingiuste sia le leggi che ledono in maniera sostanziale beni o diritti appartenenti al bene comune politico, quali sono, per esempio, i diritti fondamentali della persona, l’ordine pubblico, la giustizia, ecc., sia le leggi che privano della necessaria tutela tali beni o diritti[3]. Sono quindi gravemente ingiuste non solo le leggi che consentono allo Stato di attentare contro uno dei diritti dell’uomo, ma anche le leggi con le quali lo Stato viene meno al suo dovere di vietare e punire in modo ragionevole e proporzionato la violazione dei diritti fondamentali di una persona da parte di un’altra o di altre[4]. Quest’ultimo è il caso delle leggi abortiste, che saranno oggetto principale delle presenti riflessioni.

L’atteggiamento da tenere nei confronti delle leggi gravemente ingiuste è un capitolo classico della teologia morale cattolica[5]. Sinteticamente si può affermare che esse non obbligano in coscienza; anzi esiste l’obbligo morale di non seguire le loro disposizioni normative, di opporsi civilmente ad esse (anche attraverso l’obiezione di coscienza), di non darle il suffragio del proprio voto e di non collaborare alla loro applicazione. Ma esiste soprattutto il dovere di porre in atto tutti i mezzi leciti per abrogarle. EV riprende questi principi nei nn. 72-74[6], e in tale contesto aggiunge, nell’ultimo capoverso del n. 73, che se l’abrogazione totale non fosse possibile, è doveroso allora impegnarsi per ridurre i loro effetti negativi[7].

Naturalmente, l’attività civile e politica mirante a ridurre gli effetti negativi di una legge gravemente ingiusta deve rispettare i principi generali della morale. Qui occorre citarne due, che sono appunto quelli che sollevano gli interrogativi a cui prima si accennava. Il primo afferma che «se è lecito, talvolta, tollerare un minor male morale alla fine di evitare un male maggiore o di promuovere un bene più grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene, cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine, anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali»[8]. Questo principio significa concretamente che un male morale non può essere fatto oggetto diretto della volontà per il fatto che è un male minore. Nessuno può lecitamente eseguire l’ordine di uccidere dieci innocenti con il fine di evitare l’uccisione di trenta. Ciò che è intrinsecamente cattivo non può essere fatto oggetto diretto della volontà, costi quel che costi.

Il secondo principio riguarda la cooperazione. «Non è mai lecito cooperare formalmente al male. Tale cooperazione si verifica quando l’azione compiuta, o per la sua stessa natura o per la configurazione che essa viene assumendo in un concreto contesto, si qualifica come partecipazione diretta ad un atto contro la vita umana innocente o come condivisione dell’intenzione immorale dell’agente principale»[9]. Non è moralmente possibile collaborare alla promulgazione né all’applicazione di una legge gravemente ingiusta, quali sono le leggi che autorizzano o favoriscono l’aborto e l’eutanasia[10].

La soluzione di EV 73, di cui ci occupiamo, è proposta dall’enciclica come un’applicazione ad un caso di coscienza particolare del dovere generale di opporsi alle leggi gravemente ingiuste e di contribuire, per quanto possibile, alla loro abrogazione, e deve essere interpretata alla luce dei due principi morali testé ricordati, che la stessa EV presuppone o riprende esplicitamente.

3. Un precedente storico

EV afferma che problemi di coscienza come quello affrontato alla fine del n. 73 «non sono rari»[11]. Se ne potrebbero citare parecchi. Qui ci soffermeremo, a titolo di esempio, sulla situazione verificatasi in Italia in occasione del referendum sull’aborto dell’anno 1981.

Come è noto, il 28 marzo 1980 il Partito Radicale Italiano intraprese la raccolta di firme per un referendum che doveva modificare la legge 194/78 in senso ancora più totalmente e apertamente abortista. Di fronte all’ipotesi di trovarsi a dover votare se mantenere la legge 194/78 o peggiorarla, il Movimento per la Vita Italiano lanciò la raccolta di firme per due referendum: uno massimale, che eliminava ogni possibilità di aborto, salvo il caso di conflitto con la vita della madre; e uno minimale, che condannava in termini generali l’aborto ma permetteva due ipotesi di aborto legale: grave pericolo per la vita della madre e accertati processi patologici che determinino un grave pericolo per la salute fisica della donna. Come si prevedeva, il 4 febbraio 1981 la Corte Costituzionale Italiana dichiarò l’ammissibilità del referendum minimale del Movimento per la Vita, mentre dichiarò non ammissibile quello massimale, perché in contrasto con la sentenza della stessa Corte del 18 febbraio 1975, n. 27.

Si pose il problema di coscienza se chi è contrario in modo assoluto all’aborto poteva sostenere con il proprio voto il referendum minimale del Movimento per la Vita. La Conferenza Episcopale Italiana, con il suo comunicato dell’11 febbraio 1981, offrì un importante chiarimento morale: «L’iniziativa referendaria del Movimento per la Vita è moralmente accettabile ed è impegnativa per la coscienza cristiana, perché persegue, mediante l’abrogazione di alcune norme della legge abortista, l’obiettivo di restringerne, nella misura del possibile, l’ampiezza e di ridurne gli effetti negativi. Non ne consegue, peraltro, che le rimanenti norme abortiste della citata legge civile possano risultare moralmente lecite e praticabili»[12].

È da notare che alcuni che si presentavano come cattolici, ma che volevano che la legge 194/78 restasse così come era, criticarono l’iniziativa del Movimento per la Vita. La loro argomentazione toccava l’aspetto più difficile del problema: «L’elettorato è chiamato a scegliere tra tre diversi tipi di aborto che, tenendo conto delle origini delle diverse proposte, si possono chiamare aborto cattolico, aborto radicale e aborto risultante dalla mediazione parlamentare». Se vincesse il referendum del Movimento per la Vita, l’Italia «sarebbe il primo e forse l’unico Stato al mondo dove l’aborto risulterebbe introdotto [...] con la partecipazione attiva degli elettori cattolici»[13].

Questa speciosa argomentazione venne criticata da «La Civiltà Cattolica» il 2 maggio 1981. La rivista chiariva, in primo luogo, che i termini del referendum del Movimento per la Vita non rispondevano ad una preferenza o libera scelta dei suoi aderenti: «Per coloro che sono contrari all’aborto per principio non si tratta di “scegliere”. “Scegliere” infatti comporta la libertà di optare per la soluzione che meglio corrisponde ai propri principi. Ora, nel caso del referendum, gli antiabortisti non “scelgono” liberamente, bensì sono costretti ad appoggiare una proposta che non corrisponde pienamente ai loro principi, ma che nella situazione storica attuale è quella che permette di salvare un maggior numero di vite umane». Il fatto che il Movimento per la Vita avesse presentato anche un referendum massimale e che esso fosse stato dichiarato non ammissibile dalla Corte Costituzionale, rendeva assai evidente questa parte dell’argomentazione.

A essa seguiva un chiarimento sulla natura e sulla moralità della proposta del Movimento per la Vita. Essa era non un atto creativo di una legge abortista restrittiva, ma un atto di abrogazione parziale di una legge esistente, essendo indipendente dalla propria volontà il carattere parziale e non totale dell’atto abrogativo: «Se, come nel nostro caso, non è possibile proporre l’abrogazione totale, è moralmente lecito proporre l’abrogazione parziale, la quale, sebbene non elimini tutti i casi d’aborto, ne restringe grandemente il numero. Ora, questo è precisamente quello che fa la proposta nimimale del Movimento per la Vita. Non è una proposta, diciamo così, “propositiva”, che cioè crea una legge sull’aborto, ma è una proposta “abrogativa” di una legge già esistente. Certamente l’abrogazione chiesta è parziale, perché lascia in piedi l’aborto terapeutico: ma il fatto che la richiesta abrogativa sia parziale e non totale non dipende dalla volontà di mantenere l’aborto terapeutico, bensì è imposta dalla sentenza 27/1975 della Corte Costituzionale. Perciò è una richiesta di abrogazione “nella misura del possibile”. Ora, trattandosi di un fine di estrema importanza, qual è quello della tutela della vita umana, è moralmente lecito fare quello che è concretamente possibile per raggiungerlo, anche se si è costretti a “permettere” (o piuttosto a subire) qualcosa che è obiettivamente un male, nel caso nostro, il mantenimento dell’articolo 6 della legge 194, che prevede l’aborto terapeutico».

Su questi fatti interessa proporre qui due riflessioni. La prima è che, trattandosi di un referendum abrogativo, ciò che i suoi promotori chiedevano agli elettori era, nella sostanza e nella forma, un atto abrogativo, vale a dire, chiedeva loro di pronunciarsi in favore dell’eliminazione di una parte della legge 194/78, e in nessun modo l’approvazione degli articoli la cui abrogazione non era consentito di chiedere. Se la logica formale non mente, la negazione di un male è semplicemente un bene, che non ha bisogno di alcuna ulteriore giustificazione. In questo caso sarebbe del tutto inutile e inopportuno richiamarsi alla teoria del male minore o ai principi del volontario indiretto. L’atto abrogativo che veniva chiesto era buono e doveroso, «impegnativo per la coscienza cristiana», come ebbe a dire il comunicato della CEI. La scelta di non aver promosso questo referendum o di non sostenerlo con il proprio voto, limitandosi a votare contro il referendum radicale, sarebbe stata un contributo al rafforzamento della legge 194/78, cosa che un cattolico non poteva desiderare e doveva cercare di impedire.

La seconda riflessione prende lo spunto da una importante precisazione offerta dalla CEI: la liceità morale di sostenere il referendum parzialmente abrogativo della legge 194/78 non implicava assolutamente che, se esso avesse ottenuto il voto della maggioranza degli elettori, «le rimanenti norme abortiste della citata legge civile possano risultare moralmente lecite e praticabili». La legge rimanente dopo la parziale abrogazione sarebbe stata considerata dalla morale cattolica una legge ingiusta a tutti gli effetti, che quindi va cambiata appena possibile, alla cui applicazione non si può collaborare, e di fronte alla quale si deve presentare l’obiezione di coscienza sanitaria. Dal fatto che l’atto di parziale abrogazione sia lecito e doveroso non segue che la legge risultante sia hic et nunc giusta. L’unica cosa che si può concludere è che coloro che hanno abrogato quanto era possibile abrogare non sono autori né in modo alcuno responsabili delle disposizioni inique che restano in vigore. Loro sono autori e responsabili soltanto del fatto che non esistano più gli articoli abrogati.

4. L’insegnamento specifico di EV 73

EV 73 intende pronunciare un giudizio morale su un’azione specifica, e non un giudizio generale su qualsiasi azione animata dall’intenzione soggettiva di limitare i danni di una legge gravemente ingiusta. Perciò si delineano accuratamente le note che definiscono l’azione di cui si parla, e che la distinguono di altre possibili azioni che potrebbero sembrare identiche o analoghe ad uno sguardo superficiale. Le note che distinguono la fattispecie presa in considerazione sono le seguenti:

— Una legge abortista più permissiva è già in vigore o è messa al voto.

— Non è possibile scongiurare o abrogare completamente la legge abortista in vigore o messa al voto.

— La personale opposizione assoluta all’aborto da parte del parlamen­tare è a tutti nota, in modo da escludere la confusione e lo scandalo.

— Si intende non solo limitare quantitativamente i danni, ma anche «diminuire gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica», vale a dire, vengono valutati anche gli effetti delle proprie scelte sulla coscienza delle persone e sulla coscienza collettiva di un popolo, e quindi l’atteggiamento o la ideologia che attraverso la legge si esprime.

— Ci si trova in una situazione nella quale il proprio voto risulta determinante. Negare il proprio voto alla proposta più restrittiva implica — per una semplice questione di numero di votanti e di voti — sostenere la legge più permissiva, rendendosene responsabile, giacché tale sostegno poteva benissimo essere evitato. Si noti che questa condizione è essenziale. Se è possibile abrogare alcuni articoli della legge precedente senza partecipare alla votazione finale sul testo risultante, il voto finale si deve evitare. Se la legge più permissiva sarà abrogata anche se il parlamentare di cui parla si astiene o vota contro di essa, questi deve astenersi o, rispettivamente, votare contro quest’ultima. Se si ha la completa certezza che la legge più permissiva passerà comunque, allora si deve votare contro entrambe.

Stando così le cose, EV 73 afferma che è moralmente lecito offrire il proprio sostegno alla legge più restrittiva[14] e che «così facendo, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta». Quale è il fondamento di questo giudizio morale? Senz’altro il giudizio dell’enciclica non è fondato sul volontario indiretto, sia perché EV non invoca in modo alcuno tale figura morale, sia perché qui sarebbe del tutto inutile invocarla. La prima condizione perché sia lecita un’azione che ha effetti indiretti negativi è che l’azione in se stessa sia buona o almeno indifferente, e qui è appunto la liceità o non liceità dell’azione in se stessa che è in discussione. Se l’azione di sostenere con il proprio voto la legge più restrittiva fosse in sé moralmente illecita, le regole del volontario indiretto non potrebbero renderla lecita. Se, invece, viene stabilito che l’azione è, per il suo oggetto, buona o almeno non moralmente cattiva, allora, nel caso che tale azione avesse degli effetti collaterali negativi, andrebbero applicate le regole del volontario indiretto per sapere se, tutto sommato, l’azione può essere posta o meno.

Neppure viene invocata la teoria del male minore. Questa teoria, almeno nella sua espressione più frequente, è assai discutibile, e soprattutto non è idonea a costruire una buona argomentazione. Affermare che un’azione può essere lecitamente voluta perché essa è un male, anche se un male minore, urta contro i principi fondamentali di una sana teoria dell’azione. Ciò che qui e ora può essere desiderato e voluto è un bene. In ogni caso, EV afferma che contribuire a eliminare con il proprio voto una parte delle disposizioni inique della legge più permissiva è un bene, ma non afferma che la legge più restrittiva sia un bene, o che sia desiderabile, accettabile o difendibile nella sua qualità di male minore. La legge più restrittiva autorizza o favorisce l’aborto in alcuni casi, è perciò va considerata come una legge gravemente ingiusta, priva di autentica validità giuridica[15], con la quale non si può collaborare formalmente né in sede legislativa né in sede applicativa. Ma, si potrebbe allora obiettare, il nostro parlamentare non collabora formalmente in sede legislativa con la legge più restrittiva che tuttavia è sempre una legge iniqua? Come abbiamo visto poco fa, EV esclude almeno che ci sia una collaborazione illecita, cioè una collaborazione formale oppure una collaborazione materiale non giustificata. Resta di capire il perché.

Tutto fa pensare che la soluzione di EV 73 è fondata su un giudizio circa l’oggetto morale dell’azione con la quale il parlamentare offre il proprio sostegno alla legge più restrittiva, sempre nelle condizioni prima elencate. L’oggetto morale dell’azione realizzata dal parlamentare è l’eliminazione di tutti gli aspetti ingiusti della precedente legge che qui e ora egli può eliminare, senza perciò diventare la causa del mantenimento di altri aspetti ingiusti che egli non vuole e non accetta, ma che non è in grado di eliminare[16]. Ciò che viene fatto oggetto diretto della volontà è ciò che egli può fare: eliminare una parte delle disposizioni legali ingiuste, il che è indubbiamente buono, e non ciò che scappa al suo potere: eliminare le disposizioni ingiuste rimanenti. Ad impossibilia nemo tenetur: nessuno può scegliere cose impossibili e nessuno è tenuto ad impedire cose che non è possibile impedire[17]. Delle cose che non è possibile impedire non si è moralmente responsabile.

Nella situazione descritta, la liceità morale dell’azione del parlamentare non è fondata sull’idea che sarebbe moralmente possibile rendersi respon­sabile di un numero minore di aborti per evitare un numero maggiore (idea che alcuni chiamano erratamente teoria del male minore), ma sul fatto che il parlamentare non è moralmente responsabile di alcun disordine intrinseco, perché nulla di intrinsecamente disordinato è voluto dalla sua volontà. L’oggetto della sua volontà è l’eliminazione di tanta ingiustizia quanta egli è in grado di eliminare. Questo è un bene che non ha bisogno di alcuna giustificazione ulteriore. In sintesi, la natura e l’unico significato reale dell’azione del parlamentare è quella di essere un atto abrogativo parziale di una legge ingiusta, fermo restando che l’atto abrogativo è parziale unicamente perché l’abrogazione totale non è possibile.

Certamente rimane una legge più restrittiva che è ingiusta. Ma i responsabili di tale ingiustizia sono coloro che la sostengono pensando che sia cosa giusta, e che rendono impossibile che il parlamentare rispettoso della vita possa realizzare il suo disegno di esclusione totale dell’aborto diretto. Il male, tanto il male maggiore quanto quello “minore”, lo fanno altri, i quali non possono essere totalmente ostacolati dal parlamentare di cui parliamo. Questi elimina gli aspetti iniqui della legge nella misura in cui è possibile farlo, e questo intervento limitativo del male è l’unica cosa che egli vuole e che egli fa. Egli, con la sua azione, limita il male fatto da altri, ma anche il male minore rimanente sono gli altri a farlo, non il parlamentare di cui parla Evangelium Vitae n. 73.

Quanto affermato da Evangelium Vitae n. 73 nulla ha a che vedere pertanto con la posizione di quanti pensassero che va bene una soluzione di compromesso, perché è giusto che chi vuole abortire possa farlo entro certi limiti, e appro­vassero una legge restrittiva pur potendo ottenere hic et nunc molto di più. Allora loro vorrebbero sia quello che la legge vieta sia quello che essa per­mette. Questa differenza non è solo soggettiva nel senso deteriore della pa­rola, ma è una differenza oggettivamente controllabile: potendo hic et nunc ottenere una maggiore tutela della vita non si propongono tale scopo, perché pensano che in una società pluralista è giusta una certa permissività sull’a­borto, il che sarebbe come affermare che un po’ di ingiustizia non nuoce. In questa ipotesi, l’oggetto morale direttamente voluto è completamente di­verso di quello voluto dal parlamentare di cui parla l’enciclica.

Naturalmente, si presuppone che il parlamentare ha fatto in modo che la natura del suo operato possa essere ben chiara a tutti, per evitare la confusione e lo scandalo. La confusione è assai improbabile se la legge più restrittiva è anche dal punto di vista formale l’abrogazione parziale della legge precedente. Quando non sia così, non si può escludere che persone poco informate non capiscano con esattezza l’operato del parlamentare. In ogni caso, se sussiste un certo pericolo che il suo operato non sia capito correttamente da tutti, ciò verrà annoverato come un possibile effetto indiretto negativo non voluto, che andrà attentamente valutato, ma che non cambia quello che è l’oggetto morale dell’azione. Come afferma l’enciclica Veritatis splendor, «la moralità dell’atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall’oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata [...] Per poter cogliere l’oggetto di un atto che lo specifica moralmente occorre quindi collocarsi nella prospettiva della persona che agisce. Infatti, l’oggetto dell’atto del volere è un comportamento liberamente scelto. [..] Per oggetto di un determinato atto morale non si può, dunque, intendere un processo o un evento di ordine solamente fisico, da valutare in quanto provoca un determinato stato di cose nel mondo esteriore. Esso è il fine prossimo di una scelta deliberata, che determina l’atto del volere della persona che agisce»[18].

5. Applicazioni di EV 73

Dopo la pubblicazione dell’enciclica Evangelium vitae molti si sono interrogati se è possibile estendere la soluzione ivi contenuta a situazioni simili o almeno che hanno qualche analogia con quella descritta al n. 73. Considereremo di seguito tre fattispecie[19].

a) Prima fattispecie

La prima fattispecie si darebbe quando, a causa di un cambiamento dell’opinione pubblica o delle forze presenti in parlamento, un politico o un gruppo di politici vedono la possibilità di prendere l’iniziativa di promuovere l’abrogazione degli articoli più permissivi e delle disposizioni più negative della legge già esistente. Se si danno le condizioni segnalate nel n. 73 di Evangelium vitae [vedi sopra n. 4], questo caso non pone particolari problemi morali. Si tratta sostanzialmente della fattispecie descritta in EV 73; si aggiunge soltanto che i parlamentari interessati prendono l’iniziativa del tentativo di abrogazione. Sembra chiaro che si può lecitamente prendere l’iniziativa di un’abrogazione che, se promossa da altri, sarebbe lecito sostenere con il proprio voto. Se il progetto abrogativo punta ad ottenere il massimo di tutela della vita umana nascente che hic et nunc è possibile ottenere, allora è chiaro che l’oggetto della loro azione è la difesa della vita e la limitazione del male qui e ora possibile, senza che ciò implichi alcuna approvazione né alcuna responsabilità su ciò che non si riesce ad impedire.

b) Seconda fattispecie

La seconda fattispecie si darebbe quando, a causa di un cambiamento nell’opinione pubblica e nella composizione politica del parlamento, un politico o un gruppo di politici vedono la possibilità di promuovere una nuova legge sull’aborto, più restrittiva di quella in vigore o di quella che altri gruppi intendono promuovere. Se la proposta prevede alcuni casi in cui l’aborto è depenalizzato, ci si può chiedere se è moralmente lecito farsi promotori di una tale legge, partecipando ad una campagna di opinione pubblica in suo favore, sostenendola con il proprio voto, ecc.

Non è facile dare una risposta univoca. Un simile progetto di legge, promosso per esempio da persone pubblicamente conosciute come cattoliche, può essere il modo più intelligente di limitare il male nella massima misura qui e ora possibile, ma anche potrebbe essere o potrebbe essere interpretato (e questo è importante sul piano della cultura e della moralità pubblica) come l’espressione di un atteggiamento di compromesso. Questo atteggiamento potrebbe essere descritto così: i cattolici sono assolutamente contrari all’aborto, i non cattolici sono favorevoli all’aborto in misura maggiore o minore; dato che lo Stato è la casa di tutti, non è giusto pretendere che la legge ammetta interamente la posizione dei cattolici o quella dei non cattolici, perché la legge deve essere per forza un compromesso, una mediazione. Questo ragionamento è evidentemente errato, perché la tutela della vita umana nascente non è solo un’esigenza della morale cattolica, ma appartiene alla cultura etico-politica propria dello stato costituzionale democratico moderno[20]. Ogni legge abortista approva un criterio di discriminazione, secondo il quale non basta essere uomo per avere un diritto inalienabile alla vita, ma sono necessarie altre cose (essere desiderato, essere sano, ecc.) e in ogni caso tale diritto è in pratica concesso dalla legge civile. Questa discriminazione, fatale per coloro che la subiscono, è gravemente ingiusta, e a lungo andare mette in discussione un principio fondamentale della vita sociale. Una legge restrittiva che fosse espressione di questo atteggiamento politico di compromesso avrebbe sempre degli effetti negativi almeno sul piano della cultura e della moralità pubblica, e darebbe luogo veramente all’aborto cattolico, vale a dire, all’aborto che “alcuni cattolici” ritengono che sia giusto che esista legalmente in una società pluralistica come la nostra[21], opinione questa che mi sembra inaccettabile.

Tuttavia, se la promozione della nuova legge non risponde a questa concezione, e se si fa quanto è possibile per escludere tale interpretazione da parte dell’opinione pubblica, ritengo, alla luce di quanto si è detto finora, che sarebbe moralmente lecito farsi promotori di una nuova legge sull’aborto, più restrittiva di quella in vigore ma che depenalizza alcuni casi di aborto, solo se si danno simultaneamente tre condizioni: 1) le segnalate in Evangelium Vitae, n. 73 [vedi sopra n. 4]; 2) che la promozione di una nuova legge permetta di ottenere il massimo di tutela della vita umana che qui e ora, valutate cioè tutte le circostanze, è possibile ottenere; 3) che non sia possibile raggiungere un grado analogo di tutela della vita umana attraverso un semplice intervento abrogativo. Il riferimento ai risultati non deve disorientare: non si afferma che è buono tutto ciò che produce un risultato buono, ma di essere certi che gli aspetti negativi che ancora possiede la nuova legge sono, qui e ora, talmente inevitabili da non poter essere moralmente addebitati ai promotori della nuova legge.

Il massimo di tutela non va inteso in senso puramente quantitativo, anche se questo è molto importante, ma anche dal punto di vista culturale e sociale. Da questo punto di vista possono essere importanti, per esempio, i seguenti elementi: che nella motivazione della proposta di legge più restrittiva venga detto in qualche modo che si aspira ad ottenere una tutela completa della vita nascente, e quindi si facciano le cose in modo che resti aperta la possibilità di raggiungere un ulteriore miglioramento; che l’aborto venga riconosciuto come atto contrario al diritto, e quindi illegale in termini generali, anche se viene depenalizzato in alcune fattispecie; che la depenalizzazione risulti dalla applicazione di principi generali del diritto (stato di necessità, ecc.), e non dalla concessione di uno statuto speciale a certi tipi di aborti; che la depenalizzazione sia accompagnata da disposizioni legali che incoraggino la maternità (aiuti economici, facilitare l’adozione, leggi sul lavoro delle donne, ecc.); che siano prevenute le interpretazioni larghe della legge, sia in campo sanitario che in quello giudiziario; che l’obiezione di coscienza venga regolamentata in modo tale da non impedire agli obiettori di svolgere un’azione positiva di dissuasione; che siano previste sanzioni penali per il personale sanitario che infrange la legge, così come per i datori di lavoro che mettono delle difficoltà alle donne in maternità, ecc.; che l’aborto non venga trattato economicamente come un intervento di natura terapeutica; ecc.

c) Terza fattispecie

Si tratta di un paese nel quale l’aborto è illegale. L’evoluzione dell’opinione pubblica, l’orientamento dei gruppi politici, ecc. fa ragionevolmente prevedere che fra poco tempo sarà impossibile impedire l’approvazione di una legge molto permissiva. Si pone il seguente problema: sarebbe moralmente lecito giocare di anticipo, con l’intenzione di impedire l’ulteriore degrado della situazione, facendosi promotore di una legge che depenalizza soltanto alcune poche fattispecie, rigorosamente definite, e che stabilisce nel contempo seri provvedimenti di prevenzione dell’aborto?

A mio avviso la risposta dovrebbe essere negativa. La ragione fondamentale è che, in questo caso, i promotori sarebbero moralmente responsabili di una legge gravemente ingiusta e che rappresenta, inoltre, un peggioramento della situazione legale precedente, anche se può essere relativamente positiva nei confronti di una possibile o probabile situazione legale futura. Non si dovrebbe prendere l’iniziativa di rendersi veramente responsabili di qualcosa che in sé è moralmente negativa, affinché altri non ne facciano una più grave[22]. Se le forze in campo rendono impossibile evitare che la legge sull’aborto venga approvata, sarebbe preferibile seguire la strategia di evitare lo scontro frontale: dialogare, partecipare nella discussione in parlamento degli articoli della legge promossa da altri, cercare di attenuare per quanto possibile gli aspetti negativi della legge, e votare contro di essa nella votazione finale sulla totalità della legge. Tutto ciò dovrebbe essere fatto in modo che sia chiara per tutti la personale opposizione assoluta all’aborto.

Non mi sembra superfluo ricordare che queste valutazioni generali devono essere integrate in ogni singolo caso con un’attenta analisi delle circostanze, delle possibile conseguenze, della possibilità di dar luogo a scandalo o confusione. Particolare prudenza richiedono gli interventi pubblici delle persone che in qualche modo rappresentano la Chiesa (Vescovi, ecc.), affinché certi criteri o orientamenti prudenziali non vengano interpretati erratamente come posizioni dottrinali in favore di leggi che non garantiscono una completa tutela della vita umana. Se è lecito fare il possibile per diminuire il male, è sempre obbligatorio formare adeguatamente le coscienze anche in materia sociale e politica.



[1] Pubblicato su «L’Osservatore Romano», 6 settembre 2002.

[2] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica “Evangelium vitae” sul valore e l’inviolabilità della vita umana, 25-III-1995, n. 73.

[3] Le leggi civili potrebbero essere ingiuste anche per altri motivi, che qui non è necessario prendere in considerazione. Sull’intera tematica ci permettiamo di rimandare il lettore a Rodríguez Luño, A., Ética General, 4ª ed., Eunsa, Pamplona 2001, pp. 271-273.

[4] È chiaro che certe norme penali sono richieste affinché l’esercizio dei diritti fondamentali della persona sia una realtà effettiva nello Stato. Se i diritti fondamentali non fossero tutelati dallo Stato contro il possibile abuso della libertà da parte di alcuni, si arriverebbe semplicemente al predominio dei più forti. Cf. su questo punto Häberle, P., Le libertà fondamentali nello Stato costituzionale, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993, p. 47.

[5] Cf. S. Tommaso d’Aquino, Somma Teologica, I-II, q. 96, a. 4, c.; Günthör, A., Chiamata e risposta. Una nuova teologia morale, 6ª ed., Paoline, Cinisello Balsamo 1989, vol. I, n. 360; vol. III, nn. 230-243; Colom, E., - Rodríguez Luño, A., Scelti in Cristo per essere santi. Elementi di Teologia Morale Fondamentale, Apollinare Studi, Roma 1999, pp. 288-291.

[6] EV ripropone la dottrina teologica di Sant’Agostino e di San Tommaso d’Aquino sulle leggi ingiuste, e cita letteralmente quanto sul problema era stato detto anni fa dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’aborto procurato, 18-XI-1974, n. 22.

[7] Per comodità del lettore trascriviamo integralmente l’ultimo capoverso del n. 73: «Un particolare problema di coscienza potrebbe porsi in quei casi in cui un voto parlamentare risultasse determinante per favorire una legge più restrittiva, volta cioè a restringere il numero degli aborti autorizzati, in alternativa ad una legge più permissiva già in vigore o messa al voto. Simili casi non sono rari. Si registra infatti il dato che mentre in alcune parti del mondo continuano le campagne per l’introduzione di leggi a favore dell’aborto, sostenute non poche volte da potenti organismi internazionali, in altre Nazioni invece — in particolare in quelle che hanno già fatto l'amara esperienza di simili legislazioni permissive — si vanno manifestando segni di ripensamento. Nel caso ipotizzato, quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all’aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui» (Giovanni Paolo II, Enc. Evangelium Vitae, n. 73, 3).

[8] Paolo VI, Lettera enciclica  “Humanae vitae” sulla retta regolazione della natalità, 25-VII-1968, n. 14.

[9] Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 74.

[10] Cf. Giovanni Paolo II, Enc. Evangelium vitae, nn. 72-74.

[11] Giovanni Paolo II, Enc. Evangelium vitae, n. 73.

[12] Il testo del comunicato è citato da Palini, A., Aborto. Dibattito sempre aperto da Ippocrate ai nostri giorni, Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 68.

[13] Raniero La Valle, su «Paese Sera», 27 febbraio 1981. Raniero La Valle era stato eletto senatore come indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano.

[14] Il testo latino dell’enciclica dice «suffragari licite posse».

[15] Cf. Giovanni Paolo II, Enc. Evangelium vitae, n. 72.

[16] Cf. Finnis, J., Le leggi ingiuste in una società democratica. Considerazioni filosofiche, in Joblin, J. - Tremblay, R., (a cura di),  I cattolici e la società pluralista. Il caso delle «leggi imperfette», Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1996, pp. 99-114. Finnis spiega giustamente che il significato reale dell’azione di un membro di un corpo legislativo può essere capito solo alla luce del contesto procedurale e del marco legale esistente: «Ad esempio: una legge del genere: “L’aborto è legale fino alla sedicesima settimana” è una legge ingiusta. Ma un disegno di legge del tipo “L’aborto è legale fino alla sedicesima settimana” può essere proposto (a) per introdurre un permesso di aborto in precedenza proibito, o (b) per proibire aborti permessi in precedenza tra la sedicesima e la ventiquattresima settimana. La scelta di appoggiare il disegno di legge (a) è sostanzialmente diversa dalla scelta di appoggiare il disegno di legge (b). Infatti, ciò che viene deciso — l’oggetto della deliberazione di appoggiare il disegno di legge  — è diverso nei due casi. Nel caso (a) consiste nell’appoggiare il permesso di aborto, nel caso (b) consiste nell’appoggiare la proibizione di aborto, o almeno di tutti quegli aborti che quel legislatore in quel momento ha l’opportunità di riuscire a proibire» (p. 107).

[17] Cf. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 13, a 5: Utrum electio sit solum possibilium; e anche: In decem libros Ethicorum Aristotelis ad Nicomachum Expositio, lib. III, lectio 5.

[18] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica “Veritatis splendor” circa alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa, 6-VIII-1993, n. 78.

[19] Nella descrizione di queste tre fattispecie seguiamo Bertone, T., I cattolici e la società pluralista, le leggi imperfette e la responsabilità dei legislatori, in «Me­dicina e Morale» 5 (2001) pp. 855-875.

[20] Molto significativa è a questo riguardo l’intervista a Norberto Bobbio pubblicata sul «Corriere della Sera» il 6 aprile 1981, nella quale egli afferma: «mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l’onore di affermare che non si deve ucidere». Ugualmente significativo l’articolo pubblicato da Bobbio su «La Stampa» il 15 maggio 1981, nel quale risponde alle critiche che le erano state rivolte da Giorgio Bocca per l’intervista contraria all’aborto prima citata. In questo articolo Bobbio scrive: «Non sarà inutile ricordargli [a Bocca] che il primo grande scrittore politico che formulò la tesi del contratto sociale, Tommaso Hobbes, riteneva che l’unico diritto cui i contraenti entrando in società non avevano rinunciato era il diritto alla vita». Per più ampie informazioni, cf. Palini, A., Aborto. Dibattito sempre aperto da Ippocrate ai nostri giorni, cit., pp. 72-75.

[21] L’unica ipotesi sulla quale si potrebbe forse arrivare ad un compromesso è costituito dai pochissimi casi in cui c’è un certo e imminente pericolo di morte per la madre, perché probabilmente lo Stato non può esigere coercitivamente un comportamento eticamente eroico. Ma anche qui sarebbe necessaria molta prudenza. In realtà questi casi, dato che ancora ci siano, se il medico li gestisce con saggezza, non saranno veri aborti diretti, non saranno cioè quello che oggi viene comunemente chiamato “aborto terapeutico” (cf. su questo problema Rodríguez Luño, A., La valutazione teologico-morale dell’aborto, in Sgreccia, E. - Lucas, R. [a cura di], Commento interdisciplinare alla «Evangelium vitae», Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997, pp.421-423). Ma chiedere ad una legge civile di entrare in queste distinzioni forse è troppo.

[22] Questo è richiesto dal principio morale da noi ripreso alla citazione n. 7 seguendo la formulazione di Humanae vitae, n. 14.