La estinzione del matrimonio a causa della morte. Obiezioni alla tesi di B. Petrà (2001)[1]
Angel Rodríguez Luño
Il matrimonio puÒ morire?
In una sua monografia del 1996, Basilio Petrà avanzò una nuova ipotesi teologica per la soluzione del doloroso problema pastorale dei divorziati risposati[2]. Interrogandosi «sul perché si è sempre ritenuto e accettato che la morte sciogliesse — in qualche modo — il vincolo coniugale»[3], si affermava che né San Paolo né la dottrina ecclesiale e teologica sviluppatasi fino ad oggi hanno spiegato in modo preciso e convincente come e perché la morte di uno dei coniugi sciolga sul piano ontologico il vincolo stabilito tra i coniugi dal matrimonio rato e consumato[4]. Anzi, lo studio del problema dimostrerebbe piuttosto che «è ormai chiaro che la morte — per l’economia cristiana — non interrompe affatto il legame personale tra i coniugi cristiani: essa scioglie la consistenza giuridica del vincolo coniugale, ma non scalfisce il legame intimo delle persone in Cristo»[5]. «L’effetto dissolvente della morte [...] è pertanto estrinsecamente fondato»[6]. Petrà riteneva di poter aggiungere che, parlando in termini canonistici, la Chiesa latina, nell’ammettere la validità e la liceità delle nozze vedovili, «ha sciolto e scioglie il vincolo anche nel caso del matrimonio rato e consumato»[7]. Conseguentemente, «la Chiesa quando ha rifiutato di toccare il rato e consumato in realtà ha solo rifiutato di applicare il suo effettivo e già esercitato potere sul rato e consumato a una determinata classe di casi. In altre parole, non ci sarebbe mancanza del fatto dell’esercizio di potere sul rato e consumato, ma solo un esercizio di tale potere fattualmente limitato»[8]. Ci si poteva quindi domandare se la stessa potestà della Chiesa usata da sempre per il bene del fedele separato irreversibilmente dal suo coniuge a causa della morte di quest’ultimo, non potrebbe essere usata oggi per altri casi di separazione irreversibile, purché questa sia adeguatamente stabilita «dalla Chiesa a livello diocesano o ad altro livello»[9], allo scopo di evitare ogni arbitrio soggettivo. Si concludeva, insomma, che niente impedirebbe che la potestà della Chiesa «potesse estendersi, in piena continuità con l’attitudine paolina e pro bono animarum, ai matrimoni irreversibilmente finiti sul piano dell’oggettività storica e come tali determinabili da un giudizio della Chiesa»[10].
La non estensione della potestà vicaria al matrimonio rato e consumato
Come è noto, il Discorso di Giovanni Paolo II al Tribunale della Rota Romana del 21 gennaio 2000 contiene un’affermazione di grande importanza dottrinale. Di fronte al diffondersi dell’idea che la potestà del Papa, essendo vicaria della potestà divina di Cristo, potrebbe estendersi in alcuni casi anche allo scioglimento dei matrimoni rati e consumati[11], Giovanni Paolo II si è sentito nel dovere di precisare che «la non estensione della potestà del Romano Pontefice ai matrimoni rati e consumati è insegnata dal Magistero della Chiesa come dottrina da tenersi definitivamente, anche se essa non è stata dichiarata in forma solenne mediante un atto definitorio»[12]. Pertanto l’espressione del canone 1141 del Codice di Diritto Canonico e del canone 853 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali «include anche la potestà ministeriale o vicaria del Papa»[13].
Dal momento che si deve ritenere che «né la Scrittura né la Tradizione conoscono una facoltà del Romano Pontefice per lo scioglimento del matrimonio rato e consumato; anzi, la prassi costante della Chiesa dimostra la consapevolezza sicura della Tradizione che una tale potestà non esiste»[14], uno dei fondamenti dell’ipotesi avanzata da Petrà viene a cadere. Non esistendo una potestà della Chiesa sul matrimonio rato e consumato, non può essere invocato l’esercizio di tale potestà né per spiegare l’evidente validità delle nozze vedovili né per auspicare la validità delle nuove nozze di una persona ancora legata dal vincolo risultante di un matrimonio rato e consumato. In un commento del sopra citato discorso del Romano Pontefice, pubblicato su questa stessa rivista, Petrà ne prende atto[15]. Pur riscontrando dei «chiaroscuri»[16] nell’intervento pontificio, egli afferma giustamente che esso contiene «una dottrina da accogliere pienamente [...] va dunque affermato che il Romano Pontefice non ha la potestà di sciogliere il matrimonio rato e consumato»[17]. Ma aggiunge in seguito che questa dottrina pone ineludibilmente l’interrogativo sul «modo in cui la morte costituisce causa della dissoluzione del matrimonio»[18]. Se il primo matrimonio rato e consumato di un vedovo o di una vedova che intende risposarsi non è sciolto sul piano giuridico dalla potestà della Chiesa, si dovrà pensare allora che «il matrimonio rato e consumato sia sciolto a causa della morte, perché la morte estingue il presupposto stesso del matrimonio cioè il coniuge»[19], ma «sembra», aggiunge Petrà, che tale tesi «non possa essere accettata senza cadere in contraddizione con la comprensione cristiana della persona e del sacramento del matrimonio»[20].
L’intervento pontificio non renderebbe impossibile, invece, la via di soluzione proposta da Petrà per il problema pastorale dei divorziati risposati: «forse un simile potere di ammissione [alle seconde nozze da parte di fedeli irreversibilmente separati dal coniuge ancora in vita] potrebbe ancora darsi nella Chiesa, rimanendo del tutto integra l’affermazione che il Romano Pontefice non ha il potere di sciogliere il matrimonio rato e consumato»[21]. Basterebbe fondare tale potere di ammissione in un altro modo: se non ho capito male, esso dipenderebbe ora interamente dall’idea che la tesi dell’estinzione del matrimonio rato e consumato a causa della morte non possa essere accettata e, conseguenzialmente, dall’idea che sia valida l’analogia tra la separazione irreversibile dei coniugi a causa della morte e la separazione irreversibile di due coniugi viventi a causa di altri motivi. Sono questi i punti sui quali ora dobbiamo riflettere.
L’estinzione del matrimonio e le sue pretese incongruenze
Le incongruenze che Petrà riscontra tra la tesi dell’estinzione del matrimonio a causa della morte e la l’attuale «comprensione magisteriale e teologica dell’uomo e del matrimonio»[22] sono di tre tipi. In primo luogo, incongruenze riguardo all’antropologia cristiana e, più concretamente, riguardo alla verità che la persona umana non si estingue mai e alla natura del vincolo coniugale. Da una parte, la persona umana continua a vivere al di là della morte, «in vista della ricostituzione ultima dell’unità pneumato-corporale nella risurrezione»[23]. Viene citata Gaudium et Spes, nn. 14 e 18, dove si afferma tra l’altro che la nostra fede annuncia la «possibilità di una comunione nel Cristo con i propri cari già strappati dalla morte»[24]. Dall’altra, il vincolo coniugale «non è un vincolo di natura corporea»[25] né di natura solo giuridica ed etica. Si tratta di «un vincolo interiore delle persone, che le costituisce in una qualche unità: la bi-soggettività non è tolta ma si realizza un’appartenenza reciproca profonda tale che l’io diventa in qualche modo il tu e il tu diventa l’io»[26].
Le incongruenze riguardano in secondo luogo il valore sacramentale del matrimonio cristiano, che ne rende più piena e profonda l’indissolubilità. Il matrimonio cristiano è segno dell’unione tra Cristo e la Chiesa. La morte di Cristo sulla Croce non solo non pone fine alla relazione sponsale tra Cristo e la Chiesa, «ma ne costituisce l’atto di origine. Come conciliare, dunque, l’affermazione che la morte fa morire il matrimonio-sacramento con il fatto che il matrimonio cristiano è segno di un vincolo che si costituisce attraverso la morte e che va - in ogni caso - oltre la morte?»[27].
Incongruenze, infine, riguardo alla storia del Cristianesimo. Il lettore viene rinviato a quanto scritto nella monografia del 1996 sull’attitudine disciplinare, sacramentale, teologica e morale verso le seconde nozze vedovili. Vengono inoltre riportati testi di J. Guitton, E. Ruffini e A. Schmeman che mettono in luce, da diversi punti di vista, l’idea che la morte non scioglie il vincolo nuziale. Può essere che tra i risorti — afferma Guitton — «si ritrovi la capacità di amare, che il loro amore si raddoppi per il fatto che sono due e che l’unione della loro esistenza storica si sublimi in quella vita della quale sappiamo così poco»[28].
Su questi problemi si può certo discutere finché si vuole. Ma comunque occorre rilevare in via preliminare che l’analogia tra la separazione dei coniugi a causa della morte e la separazione tra i coniugi viventi a causa di altri motivi è un’ipotesi carica di implicazioni morali e pastorali: introdurrebbe, in effetti, un notevole cambiamento nella vita della Chiesa (in pratica, significherebbe accettare una prassi matrimoniale analoga a quella delle chiese orientali non cattoliche, anche se diversamente fondata), e che perciò non è ragionevole pretendere che essa sia recepibile dai teologi e dai pastori se non vengono offerte a suo favore prove di chiarezza, pertinenza e consistenza indiscutibili. E prove di questo genere non ne ho trovate. Non va dimenticato, peraltro, che il discorso del Papa del 22 gennaio 2000 rende improponibile uno degli argomenti che Petrà riteneva più fondati e sicuri.
Che nella patria celeste possa esserci una particolare comunione in Cristo con i propri cari, e pertanto anche con colui che in terra è stato il marito o con colei che è stata la moglie, mi sembra una tesi ampiamente condivisibile e condivisa, anche se non è da assolutizzare, perché può anche darsi che «in quella notte due si troveranno in un solo letto; l’uno verrà preso e l’altro lasciato»[29]. Ugualmente condivisibile è la profonda unità che il matrimonio cristiano instaura tra i coniugi. Ma queste tesi, vere ma di significato ancora generale, non provano minimamente il punto che sarebbe invece da dimostrare, vale a dire, che l’esistenza nell’altra vita di una speciale comunione tra coloro che furono marito e moglie sia di tale natura come per giustificare una vera analogia, in ordine alla validità delle nuove nozze, tra la morte del coniuge e la separazione a causa di un fallimento matrimoniale considerato irreversibile, un’analogia cioè tra il fedele vedovo e il fedele divorziato in ordine alle seconde nozze. Neppure costituisce una prova quanto fu detto da Pio XII sulla permanenza dell’affetto coniugale nell’altra vita oppure sul significato e grandezza della vedovanza, soprattutto quando in una di queste allocuzioni (29 aprile 1942) Pio XII, con esplicito riferimento a Mt 22, 30, afferma simultaneamente che l’indissolubilità si dilegua con la morte e che nella vita futura non ci saranno nozze. Petrà se ne rende conto e ravvisa l’esistenza di una contraddizione o di un’oggettiva tensione tra le due affermazioni[30]. Ma prima di pensare di aver scoperto una contraddizione o una tensione, non sarebbe più logico chiedersi se non si stia leggendo il testo da una prospettiva che, pur essendo molto cara all’interprete, è completamente estranea al testo stesso?
D’altra parte, affermare che S. Paolo non parla esplicitamente dello scioglimento del vincolo sul piano ontologico a causa della morte, oppure che non esiste una definizione del Magistero in proposito, è un’argomentazione e silentio che non prova in modo alcuno la validità dell’analogia tra la separazione a causa della morte e la separazione tra coniugi in vita. E neppure può costituire una prova il generico richiamo alla concezione personalistica del matrimonio. Basti notare che uno dei libri che sono stati pionieri dell’impostazione personalista dell’amore coniugale sostiene che «il matrimonio è strettamente legato all’esistenza materiale e terrena dell’uomo. Così si spiega la sua naturale dissoluzione con la morte di uno dei coniugi. L’altro è allora libero e può contrarre un nuovo matrimonio»[31]. In effetti, una cosa è che l’affetto tra coloro che sono stati coniugi sussista in qualche modo nell’altra vita, un’altra è affermare, senza giocare con le parole, che colui che è ancora in terra e colei che è nell’altra vita, o viceversa, sono marito e moglie, o che lo saranno alla fine dei tempi, fino al punto di rendere analoghe la morte di un coniuge e la separazione avvenuta per altre cause tra coniugi ancora in vita, e tutto ciò in ordine a fare a meno in alcuni casi dell’impedimento di vincolo o ligamen[32]. Si deve notare infine che tale analogia è estranea alla tradizione dottrinale cattolica e alla sua comprensione dell’indissolubilità del matrimonio, e che la conseguenza pratica che da tale analogia se ne vuole trarre entra in contraddizione con esse. Da un lato è stato più volte sottolineato che i fedeli vedovi sono liberi di contrarre seconde, terze o anche ulteriori nozze, e che i greci non li devono biasimare[33]; dall’altro, agli orientali che intendevano unirsi alla Chiesa cattolica è stato chiesto di professare che non è possibile contrarre un nuovo matrimonio se è in vita il primo coniuge del quale ci si è separato[34].
Banalizzazione della morte?
Sul fascicolo di aprile 1998, la rivista Famiglie a Roma, mensile della pastorale familiare della diocesi di Roma, in risposta al quesito posto da un lettore, pubblicò una nota sul libro scritto da Petrà nel 1996. Due punti di questa nota sono pertinenti per il nostro problema. Il primo è che «tutti i sacramenti sono legati alla vita terrena dell’uomo, e hanno fine con la sua morte fisica. Questa legge generale dell’economia sacramentale vale anche, e in modo particolarmente evidente, per il matrimonio, il quale ha non soltanto una dimensione spirituale, ma anche una dimensione corporea (cf. Gn 2, 24). Quando muore uno degli sposi, il legame matrimoniale finisce»[35]. La nota cita in seguito le parole rivolte dal Signore ai sadducei (Mt 22, 29-30). Il secondo rilievo è che non si può equiparare la morte fisica dell’uomo «con delle situazioni psicologiche (“la morte dell’amore”) o con altri cambiamenti nel corso della vita matrimoniale umana. Nella celebrazione del sacramento del matrimonio gli sposi promettono, davanti a Dio e alla Chiesa, di essere fedeli fino alla morte, cioè tutti i giorni della loro vita»[36].
Condivido l’idea che l’ipotesi che qui discutiamo sottovaluti l’importanza delle parole rivolte dal Signore ai sadducei: «Gesù rispose: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito»[37]. Su queste parole dice Petrà che «l’unica cosa certa» che è possibile trarne è che nel regno di Dio non ci sarà generazione perché non ci sarà morte, e dunque nessun legame uomo-donna in ordine alla procreazione. Il Signore vuole criticare la dottrina dei farisei sull’aldilà, concepito in termini terreni, e quella dei sadducei che nega la risurrezione[38]. Ma il significato delle parole del Signore è più ampio e più profondo. Se la Chiesa si richiama a Mt 19, 3-12 per illustrare il valore della verginità e del celibato propter regnum caelorum, si rifà invece al dialogo del Signore con i sadducei per mettere in luce che quelle scelte di vita sono un segno escatologico, vale a dire, anticipazione e prefigurazione della nostra condizione nel mondo definitivo, segno che inoltre ricorda, «come il matrimonio sia una realtà del mondo presente che passa»[39]. Si può concordare con quanti affermano che, secondo le parole del Signore, nel regno di Dio «la problematica dei dottori della legge viene privata del suo oggetto, poiché in cielo non vi sarà più il matrimonio come istituzione. Tutte le affermazioni di Gesù devono essere interpretate tenendo conto del fatto che in lui ha inizio un nuovo eone (cf. Mt 24, 38; Lc 17, 27; 14, 20)»[40]. In questo modo le parole del Signore ci offrono una preziosa indicazione sul difficile problema di sapere come sarà la vita dei «figli della risurrezione», nella quale si devono armonizzare due principi: si «deve credere, da una parte, alla continuità fondamentale che esiste, per virtù dello Spirito Santo, tra la vita presente nel Cristo e la vita futura — in effetti, la carità è la legge del Regno di Dio, ed è precisamente la nostra carità quaggiù che sarà la misura della nostra partecipazione alla gloria del Cielo —; ma, d’altra parte, il cristiano deve discernere la rottura radicale tra il presente e il futuro in base al fatto che, al regime della fede, si sostituisce quello della piena luce: noi saremo col Cristo e “vedremo Dio” (cf. 1 Gv 3, 2), promessa e mistero inauditi in cui consiste essenzialmente la nostra speranza»[41]. Le parole del Signore indicano chiaramente una rottura per quanto riguarda il matrimonio, e che si può estendere anche agli altri sacramenti. Non è difficile capire che quando si è in presenza e in contatto immediato con l’Umanità di Cristo e con la Trinità di Dio, la mediazione sacramentale, non escluso il segno costituito dal matrimonio secondo la Lettera agli Efesini, cessi di avere una ragione di essere (non meno che la fede e la speranza). Nelle parole pronunciate dal Signore nel suo colloquio con i sadducei la riflessione teologica può intravedere un significato antropologico, metafisico e teologico ancora più profondo. Ad esso Giovanni Paolo II ha dedicato interamente il terzo ciclo delle sue catechesi sull’amore umano e la teologia del corpo[42]. Il colloquio del Signore con i sadducei viene considerato accanto «agli altri due importanti colloqui, cioè: quello in cui Cristo fa riferimento al “principio” (cf. Mt 19, 3-9; Mc 10, 2-12), e l’altro in cui si richiama all’intimità dell’uomo (al “cuore”), indicando il desiderio e la concupiscenza della carne come sorgente del peccato (cf. Mt 5, 27-32)», perché costituisce «la terza componente del trittico delle enunciazioni di Cristo stesso: trittico di parole essenziali e costitutive per la teologia del corpo. In questo colloquio [con i sadducei] Gesù si richiama alla risurrezione, svelando così una dimensione completamente nuova del mistero dell’uomo»[43]. In queste riflessioni viene messo in luce che il matrimonio, come unione nella quale l’uomo si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne[44], «appartiene esclusivamente a questo mondo»[45]. Questo non significa tuttavia alcuna «”disincarnazione” del corpo né, di conseguenza, una “disumanizzazione” dell’uomo. Anzi, al contrario, significa la sua perfetta “realizzazione”»[46], resa possibile da «uno stato del tutto nuovo della vita umana stessa»[47], trasformata dalla potenza di Dio che opera la risurrezione della carne. La verità più profonda dell’uomo, il suo essere chiamato alla comunione con Dio e con gli altri, e in funzione di questo anche il significato sponsale del corpo, trova nella patria celeste «la sua realizzazione perfetta: così perfetta da non avere più bisogno che questa vocazione assuma la “forma coniugale”. Un altro modo di dire questa verità è il ricorso alla categoria della “spiritualizzazione” del corpo. Con essa si intende dire che, finalmente, il corpo sarà pienamente integrato nella persona»[48].
Non è qui possibile sviluppare ulteriormente questa prospettiva teologica. Mi limiterò ad accennare che essa è in linea con i più recenti sviluppi della miglior antropologia filosofica personalista, quella cioè che non si riduce ad invocare genericamente il valore della persona, ma che scende in profondità fino ad evidenziare come la distinzione tra l’essere personale e l’essere non personale sia la prima e fondamentale distinzione tra i sensi dell’essere, anteriore pertanto alla distinzione tra l’essere come atto e potenza, tra essere reale ed essere veritativo, tra essere per sé e l’essere per accidens, ecc.[49] La categoria del dono è iscritta nell’essere personale stesso, e ciascuno degli esseri personali finiti la realizza secondo la propria essenza (è qui in gioco la distinzione tomista tra esse o actus essendi ed essentia). In Dio, dove questa distinzione non c’è, la categoria del dono acquista la forma unica che la teologia trinitaria ci dà a conoscere. Tra gli uomini la categoria del dono riempie del suo significato anche la corporeità stessa. Le parole rivolte dal Signore ai sadducei ci parlano della perfetta e definitiva realizzazione della categoria del dono iscritta nell’essere della persona umana, realizzazione che non include la una caro e pertanto il matrimonio, ma che non nega la dimensione relazionale della persona umana e neppure la possibilità che essa acquisti una speciale forma verso colui o colei che è stato in terra il proprio coniuge. Gli insegnamenti del Signore sulla verginità e il celibato propter regnum caelorum e sull’indissolubilità del matrimonio ci parlano, invece, delle possibili realizzazioni terrene del carattere di dono iscritto nel nostro essere. Fondandosi sulle parole del Signore, la Chiesa cattolica ha sempre ritenuto e ritiene che la figura terrena del dono contenuto nel matrimonio cristiano viene certamente contraddetta dalla prospettata possibilità di contrarre un secondo matrimonio mentre il primo coniuge è ancora in vita.
Mi sembra, in sintesi, che l’estinzione del matrimonio a causa della morte non presenti incongruenze o contraddizioni riguardo all’antropologia cristiana né riguardo al valore sacramentale del matrimonio. L’estinzione del matrimonio risponde piuttosto al fatto che con la morte si passa dalla figura terrena alla figura celeste e definitiva del dono di sé iscritto nell’essere della persona umana. Perciò non vedo come l’analogia tra la morte e le diverse forme di fallimento matrimoniale potrebbe essere accettata senza incorrere in una palese banalizzazione della morte umana e della trasformazione legata alla risurrezione della carne[50]. È certamente lodevole la preoccupazione e l’impegno con cui Petrà affronta il doloroso problema pastorale dei divorziati risposati. Ma è innegabile che la morte avviene secondo il disegno di Dio, in ordine alla risurrezione e trasformazione della carne per opera della potenza divina. I fallimenti matrimoniali sono in ultima analisi opera della volontà umana, e in linea di massima siamo sempre in grado di agire sulle loro cause. Penso sinceramente che rivolgere a queste cause la nostra attenzione sarà più proficuo per i fedeli e per la Chiesa che non mettersi alla ricerca di analogie così poco credibili.
[1] Pubblicato su «Rivista di Teologia Morale» 130 (2001) 237-248.
[2] Petrà, B., Il matrimonio può morire? Studi sulla pastorale dei divorziati risposati, Edizioni Dehoniane, Bologna 1996.
[3] Ibid., p. 250.
[4] Cf. ibid., p. 222.
[5] Ibid., p. 222.
[6] Ibid., p. 226.
[7] Ibidem.
[8] Ibid., p. 232; cf. anche p. 233.
[9] Ibid., p. 236. A pag. 238 viene esposta con più completezza l’analogia tra la morte e certe unioni irrimediabilmente fallite: «A esso — al giudizio di irreversibile separazione che configura una situazione analoga a quella della morte — dovrebbe essere attribuita la stessa capacità risolutoria del vincolo che viene attribuita alla morte, con le stesse ambiguità e non-chiarezze che ancora permangono in riferimento alla morte. Infatti, come visto, il magistero non si è mai pronunciato sul modo in cui la morte risolve il primo matrimonio in ordine a nuove nozze, lasciando ai canonisti il compito di essere più precisi (e ancora non c’è molto accordo): ha solo affermato la liceità/validità delle seconde nozze, al seguito di s. Paolo. Allo stesso modo, lo stesso magistero — esercitando la sua autorità apostolica— potrebbe stabilire la liceità/validità delle seconde nozze in casi di irreversibile separazione, lasciando agli esperti il problema di definire ulteriormente il modo di azione sul primo vincolo di questa determinazione». Si veda anche p. 233.
[10] Ibid., p. 250.
[11] Cf. Giovanni Paolo II, Discorso al Tribunale della Rota Romana in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, 21 gennaio 2000, n. 6.
[12] Ibid., n. 8. Sul significato e portata di questo atto del Romano Pontefice, cf. Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica data Motu Proprio , con la quale vengono inserite alcune norme nel Codice di Diritto Canonico e nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, 18 maggio 1998, e Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professio Fidei, 29 giugno 1998, nn. 6-9.
[13] Giovanni Paolo II, Discorso al Tribunale della Rota Romana in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, cit., n. 7; cf. anche il n. 6. Il can. 1141 del CIC così recita: «Matrimonium ratum et consummatum nulla humana potestate nullaque causa, praeterquam morte, dissolvi potest».
[14] Giovanni Paolo II, Discorso al Tribunale della Rota Romana in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, cit., n. 8.
[15] Petrà, B., Facoltà del Romano Pontefice e matrimonio rato e consumato, 32 (2000) 247-256.
[16] Ibid., pp. 248-249.
[17] Ibid., p. 249.
[18] Ibidem.
[19] Ibid., p. 256.
[20] Ibidem.
[21] Ibidem. L’aggiunta tra parentesi quadre è mia. Essendo chiaro che i vedovi e le vedove possono passare alle secondo nozze, l’ipotesi qui formulata («forse un simile potere di ammissione potrebbe ancora darsi...») non può che riferirsi alle situazioni di irreversibile separazione «sul piano dell’oggettività storica» di un fedele riguardo al suo coniuge ancora in vita, situazioni che Petrà continua a considerare analoghe alla morte. Tale «potere di ammissione» si riferisce pertanto ai fedeli divorziati che intendono risposarsi, o almeno a quanti tra loro adempiano certe condizioni.
[22] Ibid., p. 250.
[23] Ibid., p. 251.
[24] Gaudium et Spes, n. 18.
[25] Petrà, B., Facoltà del Romano Pontefice e matrimonio rato e consumato, cit., p. 252.
[26] Ibidem. Vengono citati un discorso di Paolo VI e tre discorsi di Giovanni Paolo II.
[27] Ibid., p. 254.
[28] Guitton, J., La famiglia e l’amore, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1995, pp. 69-70.
[29] Lc 17, 34.
[30] Cf. Petrà, B., Il matrimonio può morire?..., cit. p. 153.
[31] Wojtyla, K., Amore e responsabilità, Marietti, Casale 1968, p. 198.
[32] Cf. CIC, can. 1085.
[33] Cf. Innocenzo IV, Lettera al vescovo di Frascati, legato della sede apostolica presso i greci, 6 marzo 1254: DH 837. Cf. anche Concilio di Lione II, sessione 4ª, 6 luglio 1274, Professione di fede dell’imperatore Michele Paleologo, DH: 860; Benedetto XII, Lettera agli armeni, agosto 1341: DH 1015; Concilio di Firenze, Bolla sull’unione con i copti e gli etiopi, 4 febbraio 1442 (1441 secondo la datazione fiorentina): DH 1353.
[34] «Item Sacramenti matrimonii vinculum indissolubile esse, et quamvis propter adulterium, haeresim, aut alias causas possit inter coniuges thori et cohabitationis separatio fieri, non tamen illis aliud matrimonium conthraere fas essse» (Urbano VIII, Professio Ortodoxiae Fidei ab Orientalibus Facienda, n. 22, in DE MARTINIS, R., Juris Pontificii de Prop. Fide, pars prima, Roma 1888, 231). Nello stesso senso cf. Concilio di Lione II, sessione 4ª, 6 luglio 1274, Professione di fede dell’imperatore Michele Paleologo, DH: 860; Benedetto XIV, Cost. , Professione di fede prescritta agli orientali, 16 marzo 1743: DH 2536.
[35] Famiglie a Roma, IX/4 (1998) 3.
[36] Ibidem. La nota si conclude affermando che «la soluzione prospettata nel libro [per il problema dei fedeli divorziati risposati] è pertanto priva di fondamento e non conforme alla dottrina della Chiesa sull’indissolubiulità del matrimonio».
[37] Lc 20, 34-36; cf. Mt 22, 29-30 e Mc 12, 24-25.
[38] Cf. Petrà, B., Il matrimonio può morire?..., cit., p. 170, nota 2.
[39] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1619. Sulla verginità e il celibato come segno escatologico, cf. Lumen Gentium, n. 44 e Giovanni Paolo II, Esort. Apost. Vita consacrata, 25 marzo 1996, n. 26.
[40] Günther, W., voce matrimonio (gamevw), in Coenen, L. - Beyreuther, E. - Bietenhard, H. (eds.), Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, Edizioni Dehoniane, Bologna 19914, p. 971.
[41] Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera su alcune questioni concernenti l’escatologia, 17 maggio 1979. Il testo può essere ora consultato nel volume Congregazione per la Dottrina della Fede, Temi attuali di escatologia. Documenti, commenti e studi, (Documenti e Studi, 5), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000. Il testo citato si trova alla p. 29 di questo volume.
[42] Cf. Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Città Nuova Editrice - Libreria Editrice Vaticana, Roma 19872, pp. 257-286.
[43] Ibid., p. 257.
[44] Cf. Gn 2, 25.
[45] Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò..., cit., p. 264
[46] Ibid., p. 267.
[47] Ibid., pp. 264-265.
[48] Caffarra, C., Introduzione al terzo ciclo delle catechesi di Giovanni Paolo II sull’amore umano, cit., p. 255.
[49] Per approfondire questa prospettiva, cf. Polo, L., Antropología trascendental. Tomo I: La persona humana, Eunsa, Pamplona 1999; Haya Segovia, F., El ser personal. De Tomás de Aquino a la metafísica del don, Eunsa, Pamplona 1997.
[50] Si potrebbe applicare qui, mutatis mutandis, quanto Hagner scrive nel suo commento a Mt 22, 30: «The problem raised by the Sadduces’ story is in fact an imagined one, based on an incorrect extrapolation from life in the present age to that of the future» (Hagner, D. A., Mathew II, in Word Biblical Commentary, vol. 33 B, Word Books Publisher, Dallas (Texas) 1995, p. 641).