LA PERSONA: TRA ANTROPOLOGIA E DIRITTO (2001) [1]

 

ENrique  Colom

 

1. Antropologia, etica e diritto

Il pensiero della modernità ha segnato una svolta di indole antropologica, che ha cercato di mettere al centro del suo interesse la persona umana e la sua felicità. Tuttavia, molto frequentemente le antropologie “moderne” hanno un taglio riduttivo: non sempre abbracciano tutto l’uomo né tutti gli uomini; non c’è perciò da stupirsi se sovente hanno finito per essere, in pratica, antropologie disumane, anzi antiumane. La ragione di questi esiti negativi si trova, principalmente, nell’aver dimenticato la dimensione principale della persona umana: la sua trascendenza, il suo rapporto con l’Assoluto; infatti, «l’uomo può organizzare la terra senza Dio, ma “senza Dio egli non può alla fine che organizzarla contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano”»[2]. Lungo la storia, molti pensatori hanno proposto dottrine antropologiche di grande valore, ma soltanto Gesù Cristo, il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero di Dio svela pienamente l’uomo all’uomo; perciò il cristianesimo possiede le chiavi fondamentali dell’antropologia[3].

Un aspetto dell’antropologia, importante per il nostro tema, è il vicendevole influsso tra l’essere della persona (e, pertanto, la sua pienezza e felicità) e il suo agire: questo sgorga dall’essere (agere sequitur esse) e, al contempo, l’essere umano si conforma e si modifica d’accordo con il suo agire. Sicché l’antropologia non può ridursi soltanto a una conoscenza teoretica della verità sull’uomo, ma deve proporsi anche come un sapere che lo aiuti a raggiungere la propria perfezione. A questo riguardo occorre menzionare il pensiero di Karol Wojtyla, le cui opere evidenziano il rapporto tra antropologia e morale: nel suo libro dedicato allo studio della persona che si manifesta attraverso l’atto, non esita a ricordare il rilievo dell’etica nella vita umana: «l’esperienza della morale deve interessarci particolarmente, in quanto i valori morali (il bene e il male) non solo determinano la proprietà intrinseca degli atti umani, ma fanno anche in modo che l’uomo come persona appunto, attraverso questi suoi atti moralmente buoni o cattivi, diventi egli stesso buono o cattivo. Quindi, sempre dal punto di vista dinamico o esistenziale, possiamo dire che la persona si trova sia nel punto di partenza di questi valori, sia nel loro punto di arrivo. La persona emerge in essi con ancor maggiore pienezza che attraverso l’atto “puro”»[4]. Da qui l’intimo rapporto fra morale ed antropologia: «l’esperienza della moralità è sempre racchiusa nell’esperienza dell’uomo e in un certo senso s’identifica con essa. L’implicazione delle esperienze è reciproca e bilaterale»[5]. Perciò la scienza etica ha bisogno di una profonda conoscenza della persona e del suo atto[6]; e viceversa, un’adeguata dottrina sull’essere umano necessita di un corretto senso morale[7].

Applicando al nostro tema quanto detto, si desume che lo studio del diritto, e concretamente dei diritti umani, non può prescindere dalla sua base antropologica ed etica e, più specificamente, da ciò che viene chiamato “norma personalista” dell’agire, secondo cui tutti gli atti umani devono essere adeguati alla crescita della persona in quanto tale, indipendentemente dal tipo di atto e/o ambito in cui si svolga. Infatti, «l’agire dell’uomo in ultima analisi non è innanzitutto la realizzazione del mondo, ma la realizzazione di sé, dell’umanità e della persona»[8]. Certamente, ciò non comporta una confusione tra il diritto e la antropologia-morale: si tratta di due piani ben differenziati, che possiedono specificità proprie; ma, come avremo occasione di sviluppare, sono anche piani con profonde intersecazioni. L’etica si indirizza al raggiungimento della “vita buona” delle persone, vale a dire della bontà dei propri atti e, in ultimo termine, della felicità umana[9]; mentre il diritto tende a rendere possibile la vita degli uomini in comunità, cioè persegue il bene comune: la pace, la libertà, la giustizia, il benessere terreno (da non identificare con il benessere materiale). Il diritto si organizza mediante l’insieme delle norme promulgate; ad esse si chiede una razionalità “politica”, nel senso più ampio e nobile della parola, o se vogliamo giuridico-politica, al fine di garantire la convivenza umana e il bene sociale; a tale riguardo, le leggi non devono regolare necessariamente gli atti umani che promuovono il bene della persona in quanto tale, tranne che riguardino direttamente il bene comune sociale. Tuttavia, siccome questo bene si raggiunge tramite gli atti umani con rilevanza sociale, il modo ragionevole di legiferare tali atti dipenderà dalla loro natura e, alla fin fine, dalla natura umana.

In questo senso, per plasmare un ordinamento legale veramente umanistico, non è sufficiente un accordo dialogico intersoggettivo; se si vuole che gli accordi raggiunti non siano puramente strumentali e pseudo-relazionali (con il rischio di disdetta unilaterale) occorre che i partner si riconoscano vicendevolmente come “persone”, con tutte le loro prerogative e dignità[10]. Difatti, «l’unico modo di trovare il nesso tra etica e diritto consiste nel concepirli quali realtà intrinseche all’essere della persona umana, dotata di una natura intesa in senso metafisico. Questo presupposto del nostro problema ci mostra l’ampiezza e la profondità della questione culturale che ne è alla base. È illusoria un’impostazione teorica e pratica di questi temi che pretenda di prescindere dai fondamenti antropologici e, in ultima analisi, metafisici. Solo nella comune fondazione ontologica nell’uomo possono etica e diritto ritrovare, nella loro diversità, la loro unità ed armonia»[11]. Da qui la necessità di tener conto, nella logica legale, delle premesse antropologiche; non soltanto di quelle biologiche, sociologiche e psichiche, ma anche di quelle etiche, se si vuole tener conto dell’uomo nella sua integrità. Per umanizzare la società occorre che le convinzioni antropologico-morali siano alla base dell’ordinamento legale: è questa la via percorsa all’inizio del cristianesimo, quando i suoi valori etici e culturali a poco a poco contrassegnarono le abitudini e le leggi della società[12]. È in questo modo che il diritto può dare un contributo di prim’ordine affinché la vita sociale favorisca lo sviluppo integrale di tutti gli uomini.

2. Diritto e morale nella storia

«Le relazioni tra Morale e Diritto, e cioè tra ordine giuridico ed ordine morale, sono state uno dei temi più studiati dai moralisti, filosofi del Diritto e canonisti, senza che fino ad oggi si sia riusciti a raggiungere non già un minimo d’accordo, ma – il che avrebbe già una notevole importanza – nemmeno un’impostazione chiara circa le questioni da trattare»[13]. Effettivamente, i punti di intersezione tra ambiti diversi mostrano sempre un’indubbia complessità, per le svariate prospettive da cui si possono affrontare i problemi e per le diverse metodologie adoperate; tali complessità sono ancora maggiori nel caso che ci occupa, trattandosi di due sfere che si riferiscono all’agire umano. In apparente contrasto con quanto detto si è potuto scrivere, a ragione: «La questione del rapporto del diritto alla morale sembra ormai definitivamente risolta per un certo tipo di cultura, oggi assai diffusa fra filosofi, giuristi e anche teologi morali. Il diritto come categoria normativa rientra nel campo della amoralità e quindi dell’operare tecnico»[14]. Certamente si tratta di un tipo di cultura – non condivisa dal prof. Cotta – di taglio riduzionistico, a cui risulta facile risolvere il problema semplicemente per eliminazione di una delle sue parti; anche se, più esattamente, si dovrebbe dire che si perdono entrambe le parti: non soltanto l’etica, ma anche il diritto, inteso come l’ambito dell’agire umano – e la sua corrispettiva scienza – che si occupa dei rapporti di giustizia a livello comunitario. Il diritto decade così, come si spiegherà successivamente, in un campo di azione – e una scienza – puramente positivista, che continuerà ad essere un ordinamento legale, ma non sarà diritto (ius), poiché ha perso la sua radice antropologica. Non è questa un’impostazione universalmente accettata, sebbene si tratti forse della più diffusa nella nostra epoca[15]. È incontrovertibile che per molti secoli il diritto sia stato pensato in intimo rapporto con la morale; donde l’interesse di tracciarne un succinto percorso storico, che possa far luce sulla situazione attuale e chiarire la natura di tali relazioni; ci soffermeremo a considerare solo le posizioni dominanti nella metafisica greca, quella propria della filosofia cristiana, e quella che corrisponde al pensiero dell’illuminismo.

Filosofia greca: Eraclito scriveva in uno dei suoi frammenti: «tutte le leggi umane, invero, vengono nutrite da una sola legge, quella divina: essa prevale, difatti, quanto vuole e basta a tutto»[16]. Cioè la legge divina è come il fondamento e la radice («nutre») delle leggi umane; queste saranno leggi autentiche – secondo verità – se sono conformi alle leggi divine, e tale conformità le rende giuste e morali. Platone è ancora più preciso: afferma infatti che la legge autentica, il nomos, non può essere cattiva, poiché è lo svelamento di ciò che è, risulta l’espressione della verità dell’essere, in quanto deriva dalla sua natura[17]. Il nomos si distingue dalle convenzioni umane che, di fatto, possono essere giuste o ingiuste a seconda del proprio armonizzarsi con esso: «Ciò che è ben fatto è legge sovrana – nomos basilikos –, ma non ciò che è malfatto, il quale si direbbe piuttosto legge per gli incompetenti; anzi, di fatto, è una non-legge – anomon»[18]. Sulla stessa linea si pone Aristotele[19]. Per entrambi i filosofi si può chiamare legge soltanto ciò che è strutturalmente giusto e pertanto morale; ma a sua volta sarà la legge della polis a facilitare la retta educazione alle virtù e, se queste mancano, essa costringerà ad agire secondo ciò che è moralmente conveniente[20].

Su questo tema, come per tanti altri, il pensiero cristiano accoglie le idee greche e le potenzia dando loro una nuova e più alta validità. Il ragionamento cristiano, che identifica l’essenza della legge con la giustizia, è simile a quello greco: una legge ingiusta è più violenza che legge, mentre la vera legge – giusta – obbliga in coscienza[21]; poiché «lex mihi esse non videtur, quae iusta non fuerit»[22]. Effettivamente la legge regola i rapporti interumani, deve farlo però in conformità con l’essere dell’uomo, proprio per non essere contro l’uomo: soltanto un ordinamento che sia in accordo con la verità sull’uomo è una legge vera e giusta; il contrario è corruzione della legge, ciò perché è ingiusta riguardo all’essere della persona. Inoltre, poiché l’uomo è creatura, la sua verità non è pienamente auto-noma, ma viene data da Dio all’interno di un ordine superiore cosmoantropologico; da qui deriva la subordinazione organica delle leggi: la legge umana, in quanto ordine stabilito dall’uomo e per l’uomo, non può disinteressarsi della legge naturale, che è propria della verità – oggettiva – sull’uomo. La legge naturale, a sua volta, è un riflesso al livello umano della legge eterna, che comprende tutto il governo divino sulla creazione come piano della Provvidenza per portare le cose al loro fine ultimo. Così il pensiero cristiano sulla legge si inserisce nello schema exitus-reditus: le creature, uscite da Dio, ritornano, secondo la propria natura, verso di Lui; tale ordine, che rileva l’integra verità sull’uomo, corrisponde perfettamente allo schema della legge, che trova la propria fonte in Dio e la cui finalità ultima è portarci verso di Lui.

Le categorie cristiane di pensiero arrivano al di là delle proposte greche, almeno in due punti essenziali del tema che ci occupa: da un lato, il collegamento tra moralità e legalità non fa perdere l’autonomia di quest’ultima, come si analizzerà dopo. Dall’altro, i rapporti interumani non si limitano agli interscambi di equivalenti, ma integrano pure le relazioni di gratuità; come scrive san Paolo «pieno compimento della legge è l’amore»[23]. Al di sopra – non contro – dell’ordine della giustizia, cioè di una misura di uguaglianza universale e imparziale, si trova la carità che non è dis-uguaglianza ma un oltre-l’uguaglianza: «caritas ergo incohata incohata iustitia est; caritas provecta provecta iustitia est; caritas magna magna iustitia est; caritas perfecta perfecta iustitia est»[24]. La novità cristiana introduce insieme alla morale della giustizia la morale della carità, per costituire un ordine etico più ricco e completo di quello puramente pagano. Nei rapporti interumani si possono distinguere due livelli gerarchicamente ordinati: il primo si riferisce alle relazioni di rispetto mutuo e simmetrico, che dipendono dal comportamento dell’interlocutore, in cui trova un’importanza decisiva l’equità e la reciprocità: è il livello della giustizia; il secondo livello si riferisce ai rapporti di piena donazione, indipendentemente dall’atteggiamento altrui, e si eleva al di sopra delle esigenze di reciprocità: è il livello della carità che «è benigna [... e] non cerca il suo interesse»[25].

Il mondo pagano conobbe diverse realtà affini alla carità, come philia, amicitia, liberalitas, ecc., senza assegnare loro un posto concreto e rilevante in una morale incentrata sulla giustizia[26]. Il cristianesimo, da parte sua, qualificherà la carità come la radice e la forma di tutte le virtù, poiché essa in conformità con la verità sull’uomo lo ordina in modo coerente verso Dio, verso il prossimo, verso se stesso, ed anche verso il mondo materiale[27]. Appunto lo schema exitus-reditus, che evidenzia come la Causa Prima e il Fine Ultimo delle creature sia Dio, mostra ugualmente che nell’intima struttura dell’essere umano – per la sua partecipazione divina – è radicata la carità, poiché «Dio è amore»[28]. Di conseguenza l’amore ha una valenza non soltanto teologica, ma anche filosofica, politica e giuridica, e ne risulta il culmine della giustizia: «misericordia non tollit iustitiam, sed est quaedam iustitiae plenitudo»[29]. La moralità del diritto risulta pertanto chiaramente affermata e più solidamente poggiata, nel nuovo ordine ontologico delineato dal Vangelo: «la conferma cristiana della morale della giustizia (e perciò del diritto) e l’introduzione cristiana della morale della carità vengono a costituire un sistema morale umanamente più ricco e completo di quello precedente»[30].

Il pensiero moderno opera un cambiamento nel modo di intendere la legge: è una lenta trasformazione in cui intervengono una moltitudine di fattori, teoretici e pratici, che hanno le proprie radici nel nuovo modo di capire l’uomo da parte della “modernità”: l’essere umano si “libera” dalla sua natura ontologica aperta alla trascendenza, e si chiude nel puro autoriferimento; si arriva così ad un soggettivismo assoluto, prima individualistico e poi collettivistico: non interessa tanto cosa è l’uomo, quanto cosa può fare, non importa la sua finalità, ma il suo potere. In questa prospettiva antropologica si perde il rapporto tra diritto e verità sull’uomo, giacché la persona si riduce ad un insieme fenomenico di sentimenti, interessi e ragionamenti: la natura si pensa “anomica”. Se la legge non corrisponde a ciò che l’uomo è, dovrà corrispondere a ciò che l’uomo fa, così nel giusnaturalismo moderno la legge viene “imposta” dall’autorità: «auctoritas, non veritas, facit legem» (Hobbes); e la persona l’accetta mediante un’artificiale operazione intellettuale per cui si “convince” dell’utilità della legge nell’ordine della convivenza. Infatti, siccome si pensa che la persona è costantemente insidiata dagli altri uomini, occorre stabilire un patto in cui si consegna allo Stato e alle leggi il diritto-dovere di regolare la pacifica convivenza e difendere i diritti personali[31].

Presto si scopre che le insidie non provengono soltanto dalle persone isolate, ma che possono essere ancora più pericolosi i tranelli dello Stato. Così Locke e Montesquieu teorizzano lo Stato costituzionale, allo scopo di difendere i diritti dei cittadini contro gli abusi dell’autorità. Non viene però modificato il paradigma di base: le leggi sono il prodotto di un atto umano di volontà[32]. Si è passato dal diritto, in senso pieno, all’ordinamento legale non necessariamente radicato nella natura umana e che sovente mette tra parentesi il suo rapporto con la virtù della giustizia. A questo riguardo, le teorie del diritto sorte dal pensiero della modernità collocano gli ordinamenti legali nel campo dei fattibili, della tecnica, perdendo così la loro qualifica morale. Le norme legali non sarebbero morali né immorali, non verrebbero qualificate dalla loro relazione all’essere dell’uomo o alla giustizia; quest’ultima sarà ancora richiamata come criterio per norme o azioni concrete, che possono valutarsi come giuste o ingiuste, ma non tanto in rapporto alla virtù quanto in riferimento alla loro qualifica legale. Non risulta strano, in questa cornice, perso l’ordine oggettivo dei valori, che a poco a poco si arrivi ad identificare il buono con il legale, e il cattivo con l’illegale, senza maggiore discernimento sull’intrinseco carattere di giusto o di ingiusto.

Orbene, una legge non può essere giustificata soltanto perché proviene dalla volontà, neppure se essa è la “volontà generale” considerata pienamente autonoma, giacché come analizzeremo posteriormente l’emanazione delle leggi non va ridotta «a un puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi contrapposti interessi»[33]. Taluni autori asseriscono che, in mancanza di meglio bisogna agire così per salvaguardare una convivenza pacifica, e qualcosa di vero si trova in questo pensiero; ma non va dimenticato che a lunga scadenza, e a volte anche a breve, una legislazione puramente procedurale non è in grado di assicurare congiuntamente la giustizia e la pace sociale, come la storia si è incaricata di mostrare. Se la persona, come individuo e come essere sociale, non viene organizzata secondo la sua piena verità, finisce per essere trattata in modo inumano: ci sono un insieme di principi e di diritti che sono indisponibili anche per la “volontà generale”, e che «nessun individuo, nessuna maggioranza e nessun Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, [ma che invece] dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere»[34]. Non si tratta, certo, di ricusare l’autonomia dell’ordinamento legale, né di rifiutare il meccanismo democratico; bensì di evidenziare «che il diritto civile, ovvero anzitutto le costituzioni comprensive dei diritti fondamentali della persona, contiene una dimensione moralmente rilevante, espressione di quella verità sull’uomo, che infine è anche misura di legittimità per ogni decisione presa democraticamente a maggioranza»[35].

Tutto ciò rileva, come immediatamente spiegheremo meglio, che la mediazione tra l’ordine legale e l’ordine morale si compie appunto mediante il diritto costituzionale che include i diritti umani inalienabili. Perciò questi diritti non si devono intendere in senso soltanto giuridico-positivo, bensì ontologico: derivano immediatamente dall’essere e dalla dignità della persona, e siccome l’uomo riceve la natura dal Creatore, in ultimo termine derivano da Dio[36].

3. Rapporto tra legalità e moralità

Da quanto detto si vede che legalità e moralità – legge umana e legge morale – sono concetti in rapporto intimo, ma non si identificano: «il fine della legge umana è diverso da quello della legge divina. Infatti la legge umana ha come fine la tranquillità temporale dello Stato (...). Invece la legge divina ha lo scopo di condurre gli uomini alla felicità eterna»[37]. Risulta d’altra parte evidente che l’uomo non è unidimensionalmente comunitario: il suo essere è più ricco e molteplice; mentre la legge umana si riferisce soltanto a singoli aspetti della persona, la legge morale si riferisce a tutto l’uomo. Perciò quella deve subordinarsi a questa: l’uomo appartiene in primo luogo a Dio e soltanto in modo derivato alla società; pertanto una normativa sociale lo può impegnare pienamente solo nell’ambito della legge divina: «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini»[38]. Una legge umana, che fosse contraria alla legge morale, non avrebbe forza vincolante, perché non sarebbe una vera legge: non si tratta di un’ipotesi teorica, ma purtroppo molto attuale in diverse legislazioni e/o costumi civili (divorzio, apartheid, corruzione imprenditoriale e amministrativa, mancanza di libertà religiosa, ecc.); sono situazioni che possono sollevare gravi problemi di coscienza e che frequentemente richiedono un atteggiamento eroico: obbedire a Dio piuttosto che agli uomini.

L’equivoco può anche trovarsi nel pensiero che l’ambito morale riguardi unicamente l’interiorità e l’individualità della persona, quando invece esso appartiene a tutte le dimensioni personali; «è perciò errato contrapporre moralità e diritto come “moralità interiore” e “legalità esteriore”. Tuttavia il diritto non abbraccia tutti i settori della moralità, per es. quello della pietà, della castità, dell’amore di sé o del prossimo»[39]. Poiché la finalità propria della comunità civile è il bene comune terreno, essa deve inculcare, con sanzioni legali, soltanto il rispetto di quei punti della legge morale che sono in rapporto diretto con il bene comune: lo Stato non può divenire – non è la sua funzione – un tutore morale dei cittadini; è piuttosto il garante del bene comune, che include alcune – non tutte, né le più importanti – prescrizioni morali. Questo non significa un indifferentismo dello Stato di fronte alla morale e alla religione che, come detto, hanno un ruolo importante nel conseguimento del bene comune. Infatti, «il bene comune politico, inteso come creazione di condizioni che consentono alle persone e ai gruppi di conseguire determinati beni nei confronti dei quali lo Stato non è competente o è neutrale, implica sempre scelte e azioni che non possono essere effettuate all’insegna della neutralità morale, tanto cara a parecchi filosofi politici liberali. Lo Stato, proprio perché deve varare leggi e dare vita a istituzioni funzionali alla pienezza umana e al bene comune globale della società civile, non può essere moralmente neutro, neppure quando deve riconoscere, tutelare e promuovere diritti che (…) ne prefigurano una precisa limitazione di competenza»[40].

Ciò non toglie, al contrario, la relativa autonomia dell’ordine legale, non soltanto nella sua promulgazione – come già visto –, ma anche nel suo adempimento: da questo punto di vista, l’unica cosa che concerne la legge è il compimento oggettivo delle norme, indipendentemente dalle circostanze morali del soggetto; così ad esempio chi paga le giuste imposte – anche se lo fa di malavoglia e per costrizione – sta contribuendo solo materialmente, ma realmente al bene comune. Perciò il compimento morale della legge suppone, per essere veramente morale, il suo compimento giuridico; ma non il contrario. «L’ordine giuridico, insomma, se è vero che ha una sua consistenza propria e una sua tecnica che gli garantiscono una certa autonomia (…), dal punto di vista morale costituisce però soltanto un minimo. Bisogna che il soggetto morale lo assuma, lo superi e lo integri in un contesto più ampio, quello della vita virtuosa che obbedisce alla legge non unicamente perché è la legge ma perché essa precisa una norma non scritta, la norma del diritto naturale, con ciò assicurando la maturazione delle persone e la realizzazione dell’ordine sociale. Tale dialettica viene poi notevolmente valorizzata se posta al servizio dell’ordine della carità, direttamente interessato dall’ordine della giustizia (principalmente sul piano morale e indirettamente sul piano giuridico)»[41].

4. Etica procedurale

Il modo di impostare il legame tra comportamento sociale e convinzioni etico-religiose, cioè tra etica pubblica e valori permanenti, si può esporre riconducendolo a tre posizioni di base. Vi sono sistemi per i quali la politica/la società è al di sopra dei valori, in quanto quella si erge a fondamento dei valori; in questo modo la vita morale dei cittadini si imposterebbe come un’adesione acritica ed obbligatoria a una realtà ad essi eteronoma e irragionevole. In altre dottrine, la politica e i valori si pensano come mutuamente estranei, o forse meglio si dovrebbe dire che questi devono adattarsi alle mutevoli condizioni della vita sociale. Secondo una terza possibilità, il bene e il vero precedono ed illuminano l’agire sociale, che si ritiene giusto se accoglie ed attua un insieme di valori e di diritti indisponibili[42]. Quando si perde, o anche si affievolisce il senso trascendente dell’uomo, si tenta di fondare la vita sociale e l’ordine legale su basi immanenti, puramente terrene; così si ricade in una delle due prime posizioni indicate. Le due categorie misconoscono, insieme all’elemento trascendente della persona, un’altra sua importante dimensione: la libertà. Per un verso dimenticano che la vita morale è vera unicamente se accompagnata dalla libertà: l’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà[43]. Per un altro verso suppongono che la libertà non dovrebbe essere riportata alla verità[44], e che le regole di comportamento sono da decidersi in ogni momento e situazione sociale in modo pattizio attraverso una procedura determinata (etica procedurale); qui si collocano le teorie politiche utilitaristiche che, negando la possibilità di una verità ontologica nel terreno pratico, finiscono per accettare come verità politica ciò che è utile di volta in volta[45].

Oltre agli argomenti antropologico-morali già indicati, anche la sociologia insegna che in ogni società l’agire umano istituisce un insieme di norme di comportamento, almeno di tipo empirico e procedurale, come modo di stabilizzare le aspettative reciproche; ciò è già un chiaro segnale del carattere nomico della persona e dei suoi rapporti sociali[46]. E la stessa sociologia rileva che tali norme devono fare i conti con le loro conseguenze pratiche e che devono trovare un fondamento di senso. Nella misura in cui queste condizioni vengono meno si ingenerano effetti perversi che tendono allo sgretolamento del tessuto sociale. Perciò ogni società ha bisogno di un minimo di etica veritativa[47]. A questo riguardo si pone la questione di indicare il ruolo dell’ordinamento legale nella vita comunitaria: lo Stato non è né deve essere il garante etico della società, ma neppure può rimanere neutrale di fronte ai valori che si trovano alla base dell’assetto legale; perciò il pluralismo normativo (che lo Stato deve difendere) richiede, come detto, un sistema etico che produca esiti non perversi dal punto di vista istituzionale e funzionale, e che possieda un senso sociale generalizzato e generalizzabile. A questo riguardo occorre che lo Stato istituisca e promuova una legislazione che favorisca quell’insieme di valori universali che possiedono una precisa giustificazione etica e razionale: difatti, la razionalità dell’ordinamento giuridico si fonda su basi oggettive, che corrispondono all’essere della persona[48].

L’ordinamento legale va concepito come diritto, nel senso pieno già indicato, cioè come un insieme di norme finalizzate al bene comune, in quanto promuove i diritti fondamentali di ogni uomo e di tutto l’uomo e ne spiega al massimo le funzioni partecipative e sociali. Ciò è possibile se si instaurano rapporti di relazionalità tra le persone in cui la reciprocità diventa l’idea-guida della cittadinanza[49]; una reciprocità che non può essere vissuta come mero scambio utilitaristico, ma come affidamento reciproco: perciò occorre fondarla su profonde ragioni etico-culturali. Per raggiungere tale sistema bisogna: 1) Legiferare su basi solidamente valoriali; infatti, le regole contrattuali necessitano di premesse metacontrattuali: in pratica non esiste un ordinamento puramente procedurale; ogni sistema si sorregge su un insieme di principi antropologici; il problema è accertare se tali principi collimano con una sana antropologia che possa esprimere l’alta dignità di ogni persona. 2) Armonizzare l’unità necessaria nella difesa dei valori con il pluralismo culturale: la formula non è unica e dipende in buona misura dalle circostanze di luogo e di tempo. 3) Scegliere, in ogni situazione concreta, un ordinamento legale adatto alle usanze e condizioni del popolo, per meglio sviluppare una democrazia sostanziale; a questo riguardo vanno evitati due estremi oggi in voga: lo Stato minimale a cui tendono i paesi della common law (anglosassoni), che garantiscono molte libertà al prezzo di molte ingiustizie sociali; e lo Stato assistenziale frequente nei paesi della civil law (europei continentali), che offrono (ogni volta di meno) un benessere più diffuso a scapito della libertà e delle autonomie, e che generano vieppiù disfunzioni e anomia.

Un esito delle teorie procedurali è stata la netta separazione fra etica pubblica ed etica privata, che finisce per dare rilevanza soltanto ai comportamenti che hanno immediati risvolti sociali; di conseguenza, l’etica privata si affievolisce e rimane ad un livello prettamente privatistico. Certamente la disgiunzione tra gli aspetti pubblici e privati della morale si è disegnata per trovare, in un mondo pluralistico come il nostro, una piattaforma comune per la convivenza sociale. Ma neppure questo buon desiderio è arrivato in porto, come mostra l’esperienza; ciò non è da stupire, tenendo conto le incompletezze antropologiche di tali impostazioni, che comportano un insieme di deficienze teoretiche e pratiche. Allo scopo di promuovere un corretto rapporto tra etica pubblica ed etica privata bisogna mettere alla base della filosofia politica e, conseguentemente, dell’ordinamento legale un’antropologia plenaria. In essa la libertà e la giustizia non si possono distaccare dalla ricerca e dall’adesione al vero e al bene oggettivi, che li precedono e che possono maturare gradatamente[50]. In quanto orientata al compimento umano, la libertà si apre spontaneamente (ma non senza sforzo proprio) al concerto sociale e alla ricerca del bene comune, poiché bene personale e bene comune non sono disgiunti, ma armonicamente collegati[51]; anzi, ciò che sorregge l’etica pubblica è lo stesso che sorregge l’etica privata, vale a dire la ricerca del bene dell’uomo in quanto tale, e ciò implica la continuità e l’armonia dei due ambiti e richiede una condotta coerente della persona.

Sicché l’etica pubblica e l’etica privata, benché diverse, non si possono separare e neanche essere assorbite l’una dall’altra; soltanto un impegno morale unitario della persona sarà in grado di far crescere il proprio valore morale e di far progredire la società in quanto tale. Difatti il bene comune politico postula l’esercizio di tutte le virtù umane e cristiane[52]: se si volesse riconoscere valore pubblico a qualsiasi pretesa dei cittadini soltanto perché espressione della loro volontà, e non per essere manifestazione di un ordine obiettivo, verrebbe a mancare il terreno necessario per raggiungere un accordo e non vi sarà alcun criterio comune per superare le disparità di interessi[53]. Pio XII ha ricordato che la radice profonda ed ultima di tutti i mali sociali si trova nella negazione e nel rifiuto de una norma di moralità universale che regola sia la vita individuale che la vita sociale[54]. Tale norma morale soltanto può essere saldamente sorretta da un fondamento assoluto, cioè da Dio: l’ordine morale non si regge che in Dio, e scisso da Dio si disintegra[55]. Ed è la legge morale a fornire i fondamenti della condotta personale e delle regole per edificare la comunità umana anche per quanto riguarda la legge civile[56].

5. Il fondamento etico dell’ordinamento legale

L’etica pubblica richiede, pertanto, un consenso più profondo di quello meramente procedurale, e cioè che sia il più possibile congruente con l’intera verità sull’uomo. Le procedure sono necessarie, ma non possono essere puramente formali, vuote di contenuto: affinché esse procurino la crescita di tutto l’uomo e di ogni uomo, occorre fondarle su un insieme di valori pre e meta-consensuali. Difatti l’etica procedurale porta in se stessa il germe dell’autodistruzione: se legata a un pensiero forte si converte facilmente in un totalitarismo aperto[57]; se legata a un pensiero debole comporta un degrado della società che sfocia – quanto meno – in un totalitarismo subdolo[58]. Perciò «se gli incontri e i conflitti di opinione possono costituire espressioni normali della vita pubblica nel contesto di una democrazia rappresentativa, la dottrina morale non può certo dipendere dal semplice rispetto di una procedura; essa infatti non viene minimamente stabilita seguendo le regole e le forme di una deliberazione di tipo democratico»[59]. Gli errori dell’neoliberalismo non vengono a galla soltanto con argomenti razionali: siccome i loro fondamenti non sono d’accordo con la verità sull’uomo, essi finiscono per mostrare la loro contraddittorietà nella vita stessa[60]. Un ordinamento privo di valori assoluti conduce al laissez faire, che riesce a dominare l’intero campo sociale; i sostenitori di questa dottrina postulano che non si deve imporre legalmente nulla che possa causare una reazione violenta, e così si arriva alla società permissiva; è sufficiente che un gruppo sollevi un certo clamore perché cadano limiti in altri tempi invalicabili, come il divorzio (contestato da Comte e da Marx), l’aborto (proibito dal giuramento ippocratico), l’omosessualità, ecc. Il ragionamento che essi fanno è sempre lo stesso: se tu non sei d’accordo non agire così, non imporre però agli altri la tua opinione. Tuttavia il permissivismo tradisce l’uomo perché, se non ci sono limiti, significa che è permessa ogni cosa e non si possono condannare né i campi di sterminio né le condizioni sociali o lavorative che si ritengono ingiuste, ecc.; e se ci sono limiti, significa allora che esistono valori sociali assoluti, che tutti devono riconoscere e che la legge deve garantire.

Tale tradimento dell’uomo si manifesta in un crescente malessere sociale, forse più spiccato nelle civiltà di maggiore sviluppo tecnico-scientifico[61]. «L’esperienza storica dell’Occidente, da parte sua, dimostra che, se l’analisi e la fondazione marxista dell’alienazione sono false, tuttavia l’alienazione con la perdita del senso autentico dell’esistenza è un fatto reale anche nelle società occidentali. Essa si verifica nel consumo, quando l’uomo è implicato in una rete di false e superficiali soddisfazioni, anziché essere aiutato a fare l’autentica e concreta esperienza della sua personalità»[62]. Insomma, ancora permangono «fenomeni di alienazione umana, specialmente nei Paesi più avanzati, contro i quali si leva con fermezza la voce della Chiesa»[63]. Effettivamente, un’idea fortemente sottolineata dal Magistero contemporaneo è stata, senza dubbio, quella che tutto l’agire umano si trova sotto l’ambito dell’ordine morale: l’arte, la scienza, l’economia, le leggi, la politica, ecc., non si possono considerare come soggetti neutrali dal punto di vista etico. Tale insistenza della Chiesa, unita alle funeste conseguenze di un certo progresso incontrollato ed inumano (disastro ecologico e nucleare, uso immorale della forza, violenze, discriminazioni, …) hanno determinato che l’umanità sia oggi più convinta della necessità di un atteggiamento moralmente corretto in tutti gli ambiti della vita. Per di più la fede nell’esistenza di verità immutabili – teoriche o pratiche – non soltanto non è antidemocratica, bensì risulta fondamento necessario per un’autentica democrazia: «l’obbedienza alla verità su Dio e sull’uomo è la condizione prima della libertà»[64].

Certamente non va dimenticato il pericolo di coloro che, in nome di un’ideologia religiosa o scientifica, tentano di imporre agli altri uomini la loro concezione della verità e del bene. Tuttavia la fede cristiana non è di questo tipo: per la sua stessa natura non pretende di racchiudere in un sistema inflessibile la mutevole realtà sociale. La Chiesa, in questo ambito, ha come scopo riaffermare la dignità della persona e usa come metodo il rispetto della libertà. Ma la libertà è compiutamente attuata soltanto nell’accoglienza della verità: in una società avulsa dalle verità e dai valori trascendenti, le persone e i gruppi rischiano l’oppressione, la violenza delle passioni e dei condizionamenti aperti od occulti, e la libertà infiacchisce[65]. A questo riguardo, la Chiesa ed ogni suo membro devono comportarsi come coscienza critica di fronte a quanto è inumano nella società, giacché lo spartiacque tra il giusto e l’ingiusto si trova nella conformità o nella difformità dei programmi e degli atteggiamenti adottati dai vari soggetti sociali (tra cui, l’ordinamento legale) con la dignità della persona, che ha delle esigenze etiche inviolabili[66]. Oltre alle necessarie denunce, e ancora più efficaci saranno la conversione personale e l’annuncio evangelico con tutte le sue virtualità, che includono l’impegno per un’effettiva azione sociale[67]. Ed anche una progettualità di nuovi ideali e mete concrete per costruire una società più giusta, solidale e pacifica[68].

Tuttavia, è bene anche guardarsi da un utopismo che pretenda di stabilire un ordinamento perfetto della società, che renda impossibile il male: l’uomo creato per la libertà porta in sé la ferita della colpa originale, che continuamente lo attira verso il peccato. Questa dottrina aiuta a comprendere le reali possibilità umane nella realizzazione dell’ordine sociale: quando gli uomini presumono di avere gli strumenti per costruire un paradiso in terra, ritengono anche di poter usare tutti i mezzi, anche la violenza o la menzogna, per realizzarlo. Ma spetta solo a Dio separare i soggetti del Regno ed i soggetti del Maligno, e siffatto giudizio avrà luogo alla fine dei tempi. Pretendendo di anticipare fin d’ora il giudizio, l’uomo si sostituisce a Dio[69]. Sono, pertanto, da rigettare tanto l’utopismo che elude i compiti concreti per rifugiarsi in un futuro immaginario, quanto il pessimismo che ritiene impossibile il miglioramento della società. L’insegnamento cristiano armonizza l’immaginazione prospettica, la fiducia nelle forze dello spirito e del cuore umano, e la sicurezza dell’aiuto divino; e ciò fa sì che il suo impegno sociale sia al contempo concreto e realistico[70]. Anzi, a motivo della sua universalità, la dottrina cristiana rimane aperta a molteplici concretizzazioni e può suscitare una pluralità di progetti sociali (culturali, economici, giuridici e politici) tra loro diversi, nessuno dei quali si identifica con esso, né può pretendere in esclusiva il suo titolo e la sua autorevolezza. Da quanto detto si desume la necessità di una istanza morale previa e superiore, che però non va proposta come sostitutiva o direttiva delle funzioni proprie della legislazione, bensì come fondamento etico della convivenza e di tutta la vita sociale[71].

6. Conclusione

Lungo il nostro studio abbiamo evidenziato sia la distinzione sia il collegamento tra l’ordine morale e l’ordine legale: l’immoralità di una certa condotta non è sufficiente per il suo divieto legale; tuttavia, se tale condotta si oppone al bene comune deve essere legalmente proibita. D’altro canto il bene comune ha un rapporto stretto con l’intera verità sulla persona, cioè con l’antropologia e la morale; perciò l’antropologia e la morale aiutano a capire quali siano le condotte immorali che influiscono negativamente sulla vita sociale. Questo aiuto però non esime, anzi richiama il bisogno di un’argomentazione giuridico-politica che sia in grado di fondare sui propri principi il correlativo intervento del legislatore.



[1] Pubblicato in M. R. Saulle (cur.), Dalla tutela giuridica all’esercizio dei diritti umani, vol. II: I diritti dei singoli e delle collettività nel terzo millennio, Ed. Scientifiche Italiane, Napoli 2001, pp. 150-169.

[2] Paolo VI, Populorum progressio, 42; la citazione interna è di H. de Lubac, Le drame de l’humanisme athée, Spes, Paris 19453, p. 10.

[3] Cf Gaudium et spes, 22.

[4] K. Wojtyla, Persona e atto, Lib. Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1982, p. 31.

[5] K. Wojtyla, I fondamenti dell’ordine etico, Cseo, Bologna 19892, p. 22.

[6] «La morale come realtà esistenziale rimane sempre in stretta relazione con l’uomo come persona. Nella persona ha la sua radice vitale. In realtà essa non esiste fuori del compimento di un atto come pure fuori della realizzazione di sé attraverso l’atto» K. Wojtyla, Persona e atto, cit., p. 178.

[7] «Fin dall’inizio abbiamo affermato che la morale nel modo più sostanziale determina la natura umana e la persona. Perciò anche l’esperienza della morale è componente integrale dell’esperienza dell’uomo. Senza questa esperienza non si può costruire una teoria adeguata della persona e dell’atto» K. Wojtyla, Persona e atto, cit., pp. 285-286.

[8] K. Wojtyla, Perché l’uomo, Mondadori, Milano 1995, p. 310. Questo non toglie invero la necessità di impegnarsi per lo sviluppo temporale, anzi «l’uomo porta nella sua natura, per così dire, un duplice pegno della “regalità” che Gesù Cristo ha rivelato e alla quale in Gesù Cristo è chiamato ogni uomo: la “regalità” che consiste nel dominio su se stessi e sull’universo» K. Wojtyla, Alle fonti del rinnovamento, Lib. Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1981, p. 90.

[9] Secondo san Tommaso «la vita beata può essere realizzata in modo perfetto o in modo imperfetto. La vita perfettamente beata non è possibile all’uomo nella condizione temporale e mortale, ma solo in una condizione di vita eterna che è effetto dell’efficienza amorosa, benefica, trasformante di Dio. Nella condizione temporale mortale è invece possibile la vita imperfettamente beata, che è sostanzialmente la vita secondo le virtù aristoteliche, etiche e contemplative; tuttavia cristianamente trasformata nel senso che l’esercizio di tali virtù è a sua volta informato da specifiche virtù cristiane, teologali e morali, anche queste donate da Dio (virtù infuse) per consentire all’uomo di  disporsi, nell’esercizio della vita imperfettamente beata, a ricevere ancora come dono da Dio quel coronamento che è la vita perfettamente beata» G. Abbà, Quale impostazione per la filosofia morale?, LAS, Roma 1996, p. 63.

[10] Cf F. D’Agostino, Filosofia del diritto, G. Giappichelli, Torino 1993, specialmente cap. II (pp. 23-45) e cap. VIII (pp. 111-127).

[11] C. J. Errázuriz, L’etica e il diritto: istanze separate o armoniche?, in «Iustitia» 53 (2000) 134.

[12] Cf S. Stomma, I limiti della legislazione, in Aa.Vv., The Common Christian Roots of the European Nations, Le Monnier, Florence 1982, vol. II, p. 952.

[13] A. del Portillo, Morale e diritto, in «Seminarium» 23 (1971) 732.

[14] S. Cotta, Diritto, persona, mondo umano, G. Giappichelli, Torino 1989, p. 267.

[15] Per una critica delle teorie che sostengono l’assoluta separazione tra diritto e morale, vedi F. Viola, Il diritto come pratica sociale, Jaca Book, Milano 1990, principalmente pp. 71-106.

[16] Diels-Kranz, 22 B 114; trad. it. G. Colli, Adelphi, Milano 1980.

[17] Cf Platone, Leggi, X, 889 E - 890 A.

[18] Id., Minosse, 317 C; trad. it.: Platone, Tutti gli scritti, Rusconi, Milano 1991.

[19] Cf Aristotele, Politica, IV, 4, 1292 a 1-11; Etica Nicomachea, V, 7, 1134 b 18 - 1135 a 14.

[20] Cf Aristotele, Etica Nicomachea, X, 9, 1179 b 33 - 1180 a 25.

[21] Cf Gaudium et spes, 30; Catechismo della Chiesa Cattolica, 1902; Summa theologiae, I-II, 95, 2 e I-II, 96, 4.

[22] Sant’Agostino, De libero arbitrio, I, 5, 11, CCL 29, 217; questo brano è citato testualmente dalla Summa theologiae, I-II, 96, 4. Cf Catechismo della Chiesa Cattolica, 1951 e 1959.

[23] Rm 13,10.

[24] Sant’Agostino, De natura et gratia, 70, CSEL 60, 298.

[25] 1 Cor 13,4-5.

[26] Cf R. Pizzorni, Giustizia e carità, Città Nuova, Roma 1980, p. 290; L. Pizzolato, L’idea di amicizia nel mondo antico classico e cristiano, Einaudi, Torino 1993.

[27] L’intima identità di ogni essere umano «consiste nella capacità di vivere nella verità e nell’amore; anzi, e ancor più, consiste nel bisogno di verità e di amore quale dimensione costitutiva della vita della persona» Giovanni Paolo II, Lettera alle Famiglie, 2-II-1994, n. 8.

[28] 1 Gv 4,8.16.

[29] Summa theologiae, I, 21, 3 ad 2.

[30] S. Cotta, Diritto, persona, mondo umano, cit., p. 273.

[31] Vedi l’interessante studio: M. Rhonheimer, La filosofia politica di Thomas Hobbes. Coerenza e contraddizioni di un paradigma, Armando, Roma 1997.

[32] Epigono di queste teorie è Hans Kelsen, per cui tutte le norme, siano morali o giuridiche, ricevono il loro valore dal volere del legislatore; su questo tema rimandiamo a C. J. Errázuriz, La teoría pura del derecho de Hans Kelsen: visión crítica, Eunsa, Pamplona 1986.

[33] Evangelium vitae, 70; cf Centesimus annus, 44-47.

[34] Evangelium vitae, 71.

[35] M. Rhonheimer, Diritti fondamentali, legge morale e difesa legale della vita nello stato costituzionale democratico, in «Annales theologici» 9 (1995) 287.

[36] Il Decalogo è l’espressione dei diritti fondamentali della persona, precedenti e più basilari delle libertà civili e politiche: vedi V. Possenti, La buona società, Vita e Pensiero, Milano 1983, p. 208.

[37] Summa theologiae, I-II, 97, 2. Su questo tema sarà utile la lettura di G. Chalmeta, La giustizia politica in Tommaso d’Aquino, Armando, Roma 2000.

[38] At 5,29.

[39] J. Höffner, La dottrina sociale cristiana, Paoline, Roma 1979, p. 48.

[40] M. Toso, Verso quale società?, LAS, Roma 2000, p. 315.

[41] J. M. Aubert, Morale sociale, Cittadella, Assisi 19752, p. 119.

[42] Cf V. Possenti, Le società liberali al bivio, Marietti, Genova 1991, p. 289.

[43] Cf Gaudium et spes, 17; Veritatis splendor, 34.

[44] Cf Libertatis conscientia, 26; Veritatis splendor, 32.

[45] Bisogna rilevare, tuttavia, che questa ideologia ha una cadenza totalitaria e fondamentalista (cf Centesimus annus, 46), giacché alla fin fine sono i gruppi di potere a decidere le regole procedurali, a filtrare le informazioni necessarie per il consenso, a incanalare l’opinione pubblica secondo i propri interessi; inoltre, siccome essa disperde il fondamento ultimo della società, non trova una salda base per difendere i diritti delle persone, per cui finisce per demolire la sua stessa ragion di essere. Ancora, e a monte, non va dimenticato che i fautori dell’etica procedurale, volente o nolente, impongono i propri valori liberal-individualistici alla società.

[46] Cf  P. Donati, Pensiero sociale cristiano e società post-moderna, A.V.E., Roma 1997; ci siamo ispirati a questa opera in diversi punti del nostro studio.

[47] Soltanto un’etica in consonanza con la verità sull’uomo è in grado di mostrare un senso razionale e di non provocare effetti pratici nocivi.

[48] Cf M. R. Saulle, Etica e diritti umani nel pensiero di Karol Wojtyla, in L. Leuzzi (cur.), Etica e poetica in Karol Wojtyla, SEI, Torino 1997, specialmente pp. 163-164.

[49] «Cittadinanza societaria» è stata chiamata da P. Donati, La cittadinanza societaria, Laterza, Roma-Bari 1993.

[50] Cf Veritatis splendor, 86.

[51] Cf Pacem in terris, 16.

[52] Cf Gaudium et spes, 30; Catechismo della Chiesa Cattolica, 2407.

[53] Cf R. Spaemann, Concetti morali fondamentali, Piemme, Casale Monferrato 1993, pp. 49-50.

[54] Cf Pio XII, Enc. Summi Pontificatus, 12.

[55] Cf Mater et Magistra, 217; Veritatis splendor, 99.

[56] Cf Catechismo della Chiesa Cattolica, 1959.

[57] Forse oggi questo non sembra un pericolo troppo vicino, ma neanche è pienamente da escludersi.

[58] «Un’autentica democrazia è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana. Essa esige che si verifichino le condizioni necessarie per la promozione sia delle singole persone mediante l’educazione e la formazione ai veri ideali, sia della “soggettività” della società mediante la creazione di strutture di partecipazione e di corresponsabilità. Oggi si tende ad affermare che l’agnosticismo ed il relativismo scettico sono la filosofia e l’atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e che quanti sono convinti di conoscere la verità ed aderiscono con fermezza ad essa non sono affidabili dal punto di vista democratico, perché non accettano che la verità sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda dei diversi equilibri politici. A questo proposito, bisogna osservare che se non esiste nessuna verità ultima la quale guida ed orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia» Centesimus annus, 46.

[59] Veritatis splendor, 113.

[60] «Ci possiamo anche chiedere che cosa significherebbe per i rapporti interumani se tutti gli uomini fossero veramente consequenzialisti e se ognuno lo sapesse. Colui per il quale le cose stanno peggio è il consequenzialista nel caso in cui l’altro sa che lo è. Perciò ci sono utilitaristi che discutono la questione se proprio per motivi utilitaristi sia in generale giusto raccomandare pubblicamente l’utilitarismo: in una società piena di utilitaristi, esso non può più funzionare» M. Rhonheimer, La prospettiva della morale. Fondamenti dell’etica filosofica, Armando, Roma 1994, p. 334.

[61] Cf Dominum et Vivificantem, 57; Sollicitudo rei socialis, 28.

[62] Centesimus annus, 41.

[63] Centesimus annus, 42.

[64] Centesimus annus, 41.

[65] Cf Centesimus annus, 46.

[66] Cf Pio XII, Radiomessaggio Natale 1954; Orientamenti per lo studio della DSC, 55.

[67] Cf Octogesima adveniens, 48; Laborem exercens, 1; Sollicitudo rei socialis, 41.

[68] Cf Octogesima adveniens, 25 e 37; Libertatis conscientia, 81; Orientamenti per lo studio della DSC, 62.

[69] Cf Centesimus annus, 25.

[70] Cf Octogesima adveniens, 37.

[71] Cf Gaudium et spes, 44; Veritatis splendor, 101.