Eutanasia e coerenza cristiana (2000)[1]
L'idea di Dio come risposta alla questione della sofferenza
José M. Galván
I. Introduzione
Non c'è bisogno di nascondere più di tanto il fatto che la fede cristiana è contraria all'eutanasia, là dove esse è capita in senso proprio, come il causare la morte a un essere umano allo scopo di evitare la sua sofferenza, o in base alla manifestazione del suo desiderio profondo e autentico di morire, o come conseguenza della considerazione del fatto che la sua vita risulta carente di un minimo di qualità[2]. La dottrina della Chiesa cattolica è stata abbondantemente chiarita nei documenti del Magistero recente. Già nei tempi di Pio XII la Chiesa ha dovuto intervenire in maniera decisa per condannare la pratica nazista dell'eutanasia in persone “prive di valore”[3], e, in senso diverso ma coincidente nella sostanza, per affermare la liceità dell'uso dei mezzi atti a lenire il dolore anche se con ciò si accorcia la vita del paziente, pur che si rispetti la sua dignità personale e sociale[4]. Paolo VI ha insistito su questo principio, non soltanto a livello precettivo, ma anche cercando di indicare il fondamento di questa dottrina nella dignità basilare della persona umana, fondata sulla chiamata divina alla vita che la costituisce in quanto tale[5]. Un riferimento esplicito all'eutanasia è stato incluso anche in uno dei suoi interventi davanti alle Nazioni Unite[6].
Ma più di tutti ha intervenuto sulla questione Giovanni Paolo II: circa una trentina di documenti del suo Pontificato trattano specificamente l'argomento (rinuncio a fare l'elenco a pie' di pagina), senza contare le centinaia di volte in cui, in una maniera o in un altra, se ne fa riferimento nel suo insegnamento. Due documenti, comunque, spiccano tra tutti: la Dichiarazione sull'eutanasia della Congregazione per la Dottrina della Fede del 5 maggio 1980[7], e l'enciclica Evangelium Vitae del 25 marzo 1995[8]. A questi due testi, e non ai superficiali commenti dei media, deve rivolgersi chi vuole conoscere le ragioni della Chiesa sul tema della dignità della vita umana e dell'eutanasia. Nel secondo di essi, Giovanni Paolo II usa decisamente tutta la forza magisteriale che la sua posizione come Vicario di Cristo gli conferisce nell'ambito dei credenti, per affermare l'inviolabilità della vita umana[9] e, in concreto, previa delimitazione dettagliata della terminologia, la grave illiceità dell'eutanasia[10].
Il fondamento teologico di queste affermazioni ci porterebbe molto lontano, ed avrebbe bisogno di molte pagine, di cui non dispongo. Riassumendo, si può dire che la dignità della persona umana e, pertanto, della sua vita, si desumono dai concetti biblici di creazione a immagine di Dio e di creazione in Cristo.
La chiave cristocentrica della nostra esistenza, in base ai due concetti fondamentali di immagine di Dio e di creazione in Cristo, comporta alcune conseguenze fondamentali. In primo luogo, il mistero dell'uomo si svela veramente nelle Persona del Verbo incarnato, cioè, nel Suo essere rivolto al Padre nell'unità dello Spirito Santo. La chiave comunionale che permette di capire le Persone all'interno della Trinità diventa anche la chiave dell'uomo che non si realizza se non tramite il dono sincero di sé[11]. Il riferimento alla struttura intima della vita trinitaria è evidente: come la Trinità eternamente si realizza nelle processioni del Verbo-verità e dell'Amore-dono, così l'uomo viene rimandato ad una radicale struttura donale in cui si conclude la sua più profonda verità. Così l'uomo è vera immagine di Dio nella creazione, principio di manifestazione di ciò che costituisce la Sua vita intima.
Questo significa che nell'uomo si da, precisandolo con l'aiuto della teologia della grazia, una comunità di vita con Dio. L'immagine in Cristo non è soltanto manifestazione dell'archetipo, ma anche espressione di una comune realtà: l'essere dell'immagine deve riflettere l'archetipo, avere qualcosa di suo. La teologia patristica ha visto in questo il fondamento di una certa “parentela” (syngheneia) tra Dio e l'uomo, che Pietro esprimeva come partecipazione della natura divina[12]. In definitiva, la teologia dell'immagine è il fondamento di una comune e reale analogia tra la natura divina e la natura umana: se l'uomo è veramente immagine in Cristo, tra lui e Dio non può darsi una predicazione semplicemente equivoca delle mutue perfezioni. E questo vale soltanto per l'uomo: soltanto in lui si da questo orientamento costitutivo all'essere divino, che si può anche esprimere come tendenza, tensione ontologica. L'uomo da solo non può allentare questa tensione, come non può costituirsi autonomamente in immagine. Ma una volta che è stato creato a immagine e somiglianza, il suo essere non può che essere percorso da una radicale irrequietezza di pulsione dinamica verso Dio che Agostino di Ippona ha espresso magistralmente. Su questa pulsione si inserisce il dono soprannaturale della vita divina in Cristo e nello Spirito.
L'essere in Cristo ha come prima conseguenza l'essere personale, visto qui come la forma concreta di essere chiamati nel Figlio alla comunione dialogica con Dio: come il Figlio è Persona nella sua relazione col Padre, in Lui noi diventiamo persona creata, chiamata al dialogo eterno. Ma ciò che costituisce l'essere personale in Dio, la relazione, non basta per fondare la ragione dell'essere personale della creatura: il Figlio non è altro che la sua filiazione, come il Padre non è altro che la sua paternità. Ma in noi, che non siamo Dio, l'essere della relazione deve essere preceduto dall'essere della persona in quanto tale, in maniera da garantire il nostro essere non-Dio, condizione per essere chiamati alla comunione con Lui. Pertanto l'essere creati in Cristo ha come prima conseguenza l'essere posti nell'essere come essenza di fronte a Dio. Soltanto Dio, pertanto, può dare il senso finale al nostro essere.
Questo riferimento a Cristo e allo Spirito, tuttavia, non si dà soltanto come dimensione categoriale della risposta credente: si trova nella stessa costituzione creaturale dell'essere umano, fatto a immagine e somiglianza di Dio. Si è portati a ritenere, quindi, come richiesto anche dalla verità di fede dell'accesso naturale dell'uomo a Dio, che la risposta data in base alla Rivelazione al problema dell'eutanasia non dipende soltanto da una struttura di senso metastorica acquisibile unicamente nella fede soprannaturale, anche se da questa istanza ne riceve la pienezza di risposta: l'uomo può trovare in se stesso e nella sua esperienza intracosmica una spinta verso quella risposta.
In altre parole, una volta che nella fede l'uomo si è aperto alla conoscenza del gratuito Amore lenitivo, dovrebbe essere anche in grado di scoprire che quella richiesta di fede non gli avviene «contro» la sua esperienza intramondana ma che, in qualche senso, anche da questa — e in concreto, dalla sua negatività — scaturisce la convenienza di credere. Passaggio questo ovviamente non automatico, ma che non può essere negato se non vogliamo escludere l'essere nel mondo dal perché del credere.
Ovviamente l'istanza intramondana che precede il passaggio alla fede come chiave di senso, non è possibile per l'uomo desumerla dalla cornice intrastorica in cui si muove; egli deve rivolgersi all'ambito della sua trascendenza: ossia, all'ambito del suo accesso naturale a Dio[13]. In concomitanza con la fede cristologica che offre una serenante risposta al problema della morte e del dolore, l'uomo deve avere una possibilità di concettualizzazione dell'essere divino che gli permetta di strutturare come «antropologica» quella risposta. Da qui la necessità di mettere in correlazione la questione del senso della sofferenza con l'idea di Dio a cui possiamo arrivare con la sola luce della ragione[14]. In altre parole, perché la risposta della fede sia “umana” è necessario che tra il concetto di umanità e il concetto di sofferenza non ci sia una radicale esclusione; il che vuole dire che la sofferenza umana deve almeno poter avere una risultante finalisticamente positiva. In caso contrario, avrebbero ragione coloro che, vedendo una contraddizione radicale tra umanità e sofferenza, in caso di coincidenza di entrambi in un individuo, vedono come imperativo la soppressione di uno dei due: prima la sofferenza, ma se ciò non è possibile, si sopprime la persona.
Questa è, mi pare, la questione decisiva: può avere senso una vita sofferente, in maniera tale che valga la pena viverla in ogni caso, al di sopra di considerazioni utilitaristiche o soggettive? Che il comandamento “non uccidere” sia di validità universale non si pone in questione; molti invece pensano all'apparente convenienza di fare un'eccezione in determinati casi. Intendo continuare rievocando alcune idee sul concetto di morte umana, con l'idea di illuminare, nella misura in cui potrò farlo, il fatto che la vita in quanto tale non è legata alla temporalità, non finisce con essa. Se la vita temporale non è la vera vita, ma è indirizzata ad altra, nella quale siamo chiamati a vivere in comunione personale eterna — cioè, amati per sempre —, allora questa seconda vita è normativa della prima, che non può, pertanto, essere gestita autonomamente. Anzi, la vita temporale diventa l'ambito di avvicinamento alla realtà dialogica della seconda. Si tratta, quindi, di capire, se le condizioni che viste esclusivamente nella cornice della prima vita sembrano inaccettabili, possano invece avere un ruolo decisivo nel portarci verso la seconda. Con ciò non tratto tanto di dare le ragioni della Chiesa — ho già rimandato alla fonte di queste — ma semplicemente giustificare che il fatto di abbracciarle non è antiumano.
II. La questione della morte e del tempo.
La morte è il più radicale dei problemi che la creaturalità pone, giacché la sua realtà e inevitabilità rendono vana qualsiasi soluzione che dipenda dal tempo. In essa si avvera massimamente il fatto che ogni realizzazione dell'essenza umana si da soltanto sul piano dell'esistenza, ed è, quindi, necessariamente limitata. Forse per questo si tratta dell'elemento più caratterizzante non soltanto della religiosità naturale, ma anche di ogni cultura, che in un certo senso esiste per dare una risposta di senso positiva all'uscita della temporalità. In fondo, ciò che più preoccupa l'uomo è assicurarsi una “buona morte”.
Ciò comporta una certezza di dover morire, sulla quale è possibile, comunque, porre qualche domanda. A questo punto, infatti, si deve far notare che l'inevitabilità della morte non può essere desunta soltanto per via induttiva, ed anche se il fatto che tutti gli uomini fino adesso sono morti si presenta come universale verità, ciò non comporta nessuna consolazione. Bisogna aggiungere ancora che la consapevolezza di essere mortale dà all'uomo l'autocoscienza della vulnerabilità della propria natura[15]. La mortalità, pertanto, sarebbe una conseguenza implicita nella concreta struttura ontologica della creatura umana, nella sua realizzazione in una molteplicità di individui successivi.
Ma allora la morte dovrebbe essere un elemento normale, non dovrebbe porre una questione di senso, come invece sembra universalmente accadere. E così sarebbe, infatti, se l'uomo avesse soltanto una teleologia intracosmica, chiusa alla trascendenza in Dio del suo essere, o in ogni situazione in cui lui fosse incapace di raggiungere intenzionalmente questa dimensione spirituale di apertura[16]. Di fatto, è universale constatazione che la morte non può essere considerata un elemento “normale”, e che in tutte le culture, accennavo prima, si cerchi (più o meno in vano) la forma di renderla positiva, di poter viverla, negli altri e in sé stesi, in maniera impavida, senza timore. Poter realizzare questo tentativo o non, o — più semplicemente —, avere un atteggiamento ottimista o pessimista davanti a questa impavidità, dipenderanno dagli elementi di risposta di cui l'uomo disponga. Se viene accettato il primo presupposto, cioè una visione dell'uomo chiusa a livello intracosmico, nulla dovrebbe poter rendere problematico il riscorso all'eutanasia o al suicidio.
L'universale richiesta di senso, pertanto, permette di ipotizzare una dimensione di trascendenza nell'essere umano che la problematicità della morte in certo modo svela. Dicevo che solo la considerazione dell'uomo in chiave unicamente di corporeità permetterebbe affermare la morte come naturale: ma non siamo soltanto corpo. L'unità sostanziale anima-corpo, essendo l'anima immortale, pone in una radicale profondità il problema della mortalità del corpo, giacché non possiamo essere mortali “in parte”: da qui che il fatto della morte, oltre ad essere innaturale, sia visto come scissione. La questione è riuscire ad adottare davanti alla morte un atteggiamento di apertura alla novità dell'al di là del morire stesso; altrimenti il suo evento non potrà che essere interpretato come il riassunto di tutti i mali, in quanto privazione della vita, che è il bene che fonda tutti gli altri beni, o la possibilità di acquistarli.
Il rimando a un “al di là” della morte costituisce un elemento necessario di risposta, giacché il morire dell'uomo non può esser mai considerato come un portare a compimento l'umano, che sempre rimarrà limitato nel piano esistenziale, anche nel caso in cui l'esistenza si prolunghi indefinitamente, perché l'uomo non si realizza unicamente nella durata temporale: nessun uomo sarà pienamente uomo nel momento della sua morte.
Bisogna tenere conto, per tanto, che dare un senso alla questione della morte non vuole dire sopprimere il termine della temporalità: ciò non risolve nulla, soltanto rimanda infinitamente la soluzione. “Il senso del tempo, quale lo abbiamo definito, può essere anche compreso come espressione del fatto che siamo sempre proiettati oltre noi stessi, che non ci troviamo veramente in quel che siamo, che non abbiamo neanche raggiunto quel che vogliamo e che il nostro essere ci chiede di essere; siamo sempre per via, sempre in cammino. Il tempo è espressione del fatto che non restiamo, né possiamo restare, in quel che siamo, e non abbiamo mai raggiunto la pienezza definitiva dove potremmo riposare. Siamo costantemente alla ricerca di un senso più soddisfacente da dare a quel che siamo e a quanto ci circonda”[17]. Quello che l'uomo desidera è una forma di esistenza non misurata dal tempo, al di là del tempo, sopratemporale. Il contrario della morte è la vita, non la durata indefinita. In qualche senso, possiamo dire che il necessario superamento della finitezza che avviene tramite la considerazione dell'infinitezza dell'essere divino, deve trovare un riscontro nella considerazione della temporalità, in maniera tale che questa non sia percepita come limite assoluto, ma come “finitezza non definitiva”. In altre parole, se la morte è il termine della temporalità, il vero problema di senso non è costituito dalla morte, ma dal tempo in quanto tale.
La risposta alla questione del tempo deve consistere nel raggiungimento di una situazione supratemporale in cui la struttura dialogica della libertà raggiunga l'immutabilità personale che richiede la vittoria sul senso di colpa[18]. Ma come indica J. De Finance[19], il problema della temporalità si pone in termini diversi alla questione dello spazio: davanti alla condizione spaziale del proprio essere, la necessità di trascendenza risulta specialmente chiara e sperimentabile all'uomo. Con la temporalità, invece, avviene una sorte di connaturalità ingannatrice, procedente dal fatto della nostra capacità di immaginare una coscienza puramente spirituale senza liberarla della successività che condiziona la nostra forma di pensare. Da cui la necessità di insistere nella sopratemporalità della soluzione, nella quale, comunque, deve anche essere inserita la temporalità, che rimane sempre e comunque una condizione del nostro essere unità sostanziale di corpo e anima. Si tratta, infatti, di sopratemporalità, non di atemporalità, giacché la semplice negazione del tempo non permetterebbe la soluzione integrante della nostra concreta realtà esistenziale[20].
Il concetto di durata, pertanto, deve essere perfezionato nel senso di slegarlo da una considerazione unicamente temporale (durata successiva), che come abbiamo già visto, non può mai essere pienezza; si deve ipotizzare una durata sopratemporale, in cui l'essere dell'uomo, venuto ad essere in un momento concreto, duri per sempre, includendo in questa durata eterna la sua dimensione spaziotemporale, che non sarà più, però, condizione di durata.
A questo punto è conveniente ricordare la normatività che per il tempo attuale ha il futuro. Questa normatività dipende dal fatto che il tempo ha senso nella misura in cui muove verso una pienezza futura al di fuori del tempo. “Chi non tende verso l'avvenire, muore. Non tendere più al futuro è segno di morte”[21]. Un tempo “senza freccia” non sarebbe antropologicamente consistente. Un tempo indeterminato, senza fine, toglierebbe alla successività qualsiasi dimensione creativa di significatività, giacché nulla sarebbe in termini assoluti, irrepetibile[22]. Di fatto, la considerazione puramente ciclica della storia è necessariamente pessimista, e da peso soltanto al passato mitico sul quale si fondano i cicli, senza che questo passato sia garante del futuro: così il tempo sarebbe “soltanto o prima di tutto un declino, uno scivolare verso la morte”[23]. Persino i cicli del cosiddetto eterno ritorno, almeno nelle formulazioni tradizionali induistiche con i loro numeri di grandezza veramente iperbolica, pur dovendo affermare che non riescono ad uscire di una concezione chiusa della storia, possono essere capite nel senso di una fuga asintotica, come una tensione verso una pienezza futura sopratemporale, che necessariamente si muove tra una confusa consapevolezza atematica dell'eterno e la cornice referenziale intracosmica, segnata dalla successività e dai cicli della natura.
Ma un tempo con freccia è significativo soltanto se si aggiunge anche il fine: un tendere verso un avvenire senza meta, come alle volte si vede nella moderna idea relativistica di progresso, in cui la definizione del termine coincide con il percorso (“progredire”), comporta lo stesso pessimismo dei cicli, e porterebbe nuovamente alla giustificazione della soppressione della vita temporale. Il presente si da, quindi, tra un fondamento passato e una teleologia dell'avvenire che si congiungono: il fondamento lo è in quanto promessa o, in altre parola, lo è in quanto dà solidità all'avvenire. “L'enigma del presente è il più oscuro di tutti gli enigmi del tempo. E ancora, non c'è risposta se non da ciò che comprende tutto il tempo e lo trascende: l'eterno”[24].
Ogni tempo è cammino — l'unico cammino — verso questo eterno, e in quanto tale va vissuto, anche quando il dolore e la sofferenza sembrano renderlo invivibile. Non ci sono scorciatoie. Si tratta, adesso, di esplorare le ragioni della positività finale di queste realtà apparentemente negative.
III. Onnipotenza metafisica e senso del dolore.
In questa linea, e mantenendoci sulle dimensioni generiche della questione, si può dire che la concettualizzazione specifica di Dio nei confronti della sofferenza terminale è racchiusa nell'idea della misericordia divina. Come ricordava Giovanni Paolo II nella sua seconda enciclica trinitaria, in riferimento al Padre Dives in misericordia, «conviene ora volgerci a quel mistero: lo suggeriscono molteplici esperienze della Chiesa e dell'uomo contemporaneo; lo esigono anche le invocazioni di tanti cuori umani, le loro sofferenze e speranze, le loro angosce e attese»[25]. L'idea di misericordia è comunque fondamentalmente dipendente dalla rivelazione biblica. In ambito teologico si dovrebbe cercare di stabilire il collegamento tra questa categoria e il momento razionale e riflesso dell'ascolto della fede, includendo necessariamente il riferimento alle diverse proprietà tramite le quali l'essere divino può essere conosciuto dalla nostra finitezza. Ritengo che questo può essere possibile attraverso la considerazione dell'attributo divino metafisico dell'onnipotenza. Questa restrizione dell'ambito di partenza corrisponde fondamentalmente a due idee previe: in primo luogo, la convinzione dell'essere probabilmente l'onnipotenza il primo degli attributi divini[26]; in secondo luogo, la convenienza metodologica —visto che si parte di una richiesta creaturale— di puntare su un attributo che, anche se potrebbe essere raggiunto come caratteristica estatica dell'essere assoluto, sembra dire fondamentalmente riferimento all'agire divino manifestato nella creazione[27].
La prima constatazione sulla realtà del dolore è il suo carattere indesiderabile e universale: l'uomo lo rifiuta e, nello stesso tempo, sa di non essere in grado di evitarlo: in qualche senso, si tratta di una condizione della sua situazione creaturale finita. Il dolore costituisce una delle dimensioni in cui l'essere umano sperimenta con maggiore chiarezza la sua trascendenza sulle leggi del creato materiale: tutte le minacce che sperimenta non soltanto non riescono a cancellare il valore dell'esistenza umana, ma lo sottolineano con maggior vigore[28]. Il dolore, in quanto violazione delle leggi che costituiscono l'universo personale, fa prendere di conseguenza coscienza all'uomo della sua radicale impotenza davanti a sé e al cosmo, che si sperimenta come limitazione indesiderabile: qualcosa che, in definitiva, non doveva esistere.
In fine, la realtà del dolore viene sperimentata in una radicale individualità: non si può conoscere pienamente il dolore di un altro uomo o dare a conoscere il proprio: non c'è un logos esterno del dolore. Questo aspetto della sofferenza contraddice anche radicalmente la tendenza naturale dell'uomo alla comunione con i suoi simili: nella sofferenza, paradossalmente, si acuisce questa necessità degli altri, proprio nel momento in cui è palese l'impossibilità di farli partecipi del proprio dolore. Il passaggio dall'individualità alla soggettività (inter-soggettività) sembra fatalmente compromesso[29].
Davanti a queste realtà —e non prima— ci si pone subito la questione del perché, la domanda sul senso. Quest'interrogativo, anche se non costituisce da solo l'essenza della sofferenza, è sicuramente una delle sue dimensioni fondamentali: se l'uomo riesce a dare un senso al dolore, come avviene nel cauterizzare una ferita, o in un tatuaggio, o nella mortificazione corporale, esso non è più tale in senso proprio o, in altre parole, non è più vissuto come evento angosciante, anche se si mantiene intatta la sua carica nociva somatica o psicologica.
A questo punto la pretesa della fede di offrire una risposta alla questione diventa antropologicamente interessante: secondo la fede, «nel piano divino ogni dolore è dolore di parto; esso contribuisce alla nascita di una nuova umanità»[30]. Ma questa novità richiede all'uomo un'apertura teonomica, una rinuncia all'autonomia di risposta: «Egli è posto così di fronte ad un tremendo Aut-Aut: domandare a un Altro che s'affacci all'orizzonte della sua esistenza per svelarne e rendere possibile il pieno avveramento, o ritrarsi in sé, in una solitudine esistenziale in cui è negata la possibilità stessa dell'essere. Il grido di domanda, o la bestemmia: ecco ciò che gli resta!»[31].
Si potrebbe a questo punto dire che l'attributo divino onnipotenza, come presentato dalla tradizione teologica classica, offrirebbe un primo elemento di sollievo: la confessione di un essere onnipotente costituirebbe un punto di riferimento davanti all'inevitabilità di qualsiasi situazione in cui l'uomo possa trovarsi, non ultima quella della sofferenza. Inoltre, se all'onnipotenza si aggiunge l'idea di causalità universale (creazione) e dell'agire intellettuale dell'essere creatore, la contingenza della temporalità risulterebbe protetta dalla sensazione di essere finalisticamente abbandonata: tutto può avere un senso dal momento in cui procede da un atto intellettuale.
Dall'idea di creazione, nello stabilire la distinzione tra l'Essere assoluto e l'essere finito, procede il concetto di contingenza, che sembra indicare —in riferimento alla dimensione “creaturale” della sofferenza—, la necessità di superare l'apparente dicotomia dialettica tra i concetti di umanità e di sofferenza a cui mi sono riferito prima; la mancanza dell'idea di contingenza, o la considerazione dell'uomo come assoluto potrebbe portare a vedere una contraditio radicale nell'espressione umanità sofferente.
Con ciò si spezza l'ipotetica assurdità della domanda di senso davanti al problema del dolore: forse non ci sarà una risposta nel nostro orizzonte intramondano, o forse la risposta comporterà una soluzione irragiungibile, ma almeno il fatto di porsi la questione non è un controsenso, una sorta di errore ontologico. Senza una certa confessione dell'onnipotenza, l'esperienza umana del dolore non dovrebbe essere molto diversa di quella animale.
Ma queste idee, anche se costituiscono una condizione di possibile risposta, creano al credente la vera difficoltà! Appunto perché si confessa un essere creatore che potrebbe proteggere il creato dalla sofferenza, il fatto di dover soffrire si sperimenta come ingiusto. Si palesa così l'insufficienza di un'impostazione unicamente metafisica del problema: l'uomo non sarebbe in grado di sopportare l'idea di un Essere supremo che permette la sofferenza, se questo Essere ha la pretesa di manifestarsi simultaneamente come buono[32]; molto di meno potrebbe vedere nella sofferenza una risultante finale positiva, in cui consisterebbe, in fin dei conti, la risposta al problema del senso.
Sorge allora la necessità di approfondire ulteriormente il concetto di onnipotenza, se veramente si pretende una sua utilità nella soluzione al problema posto. Si tratta di superare la limitazione tendenzialmente oggettivistica che la mera considerazione ontologica dell'attributo comporta, per inserire il discorso nell'ambito di relazionalità in cui ogni possibile concettualizzazione dell'essere divino (o dell'essere umano) acquista la luce maggiore a cui il nostro intelletto, illuminato dalla fede, può arrivare.
Tuttavia è bene sottolineare ancora che non si può fare a meno della fondante dimensione metafisica all'ora di dare una soluzione che comunque, se esiste, deve provenire dall'idea di Essere onnipotente, giacché senza di essa l'uomo non comincerebbe neanche a darsi da fare per vincere il dolore.
IV. L'onnipotenza personale
Porre il problema del senso comporta, quindi, uscire da un ambito di riferimento limitato unicamente dall'unum dell'essere, per inserire la questione in un contesto superiore, dato dall'integrazione delle complesse interferenze che comportano l'essere personale di Dio e dell'uomo. In questa nuova sfera di riferimenti mutui risulta possibile capire il senso —la direzione— delle traiettorie dell'uomo nella storia.
Infatti, a prima vista, sembra che la risposta alla domanda di senso che il dolore pone abbia a che vedere con l'anelito dell'uomo verso la felicità. Si tratterebbe di esplicitare —se ciò è possibile— come la presenza della sofferenza sia compatibile con l'ideale della felicità umana: perché sofferenza e felicità non sono, come sembra, concetti che si autoescludono. Seguendo una indovinata definizione esistenziale di felicità[33], si tratta di poter dire di sì in senso profondo a quella dimensione della vita costituita dal dolore: il che comporta constatare non soltanto la reale aspirazione alla felicità nonostante la presenza della sofferenza —un'aspirazione sperimentata come non realizzabile in assoluto non farebbe felice l'uomo—, ma anche della verificabilità delle condizioni che permettono la conciliazione.
Fin dal tempo di Aristotele è chiaro che l'ideale della felicità comporta la realizzazione di comunicazioni interpersonali; come è risaputo, lo Stagirita arrivò al punto di dubitare che Dio potesse essere felice, data la sua solitudine. Se Dio viene chiamato in causa come chiave ultima del problema della sofferenza, deve esserlo nella sua dimensione di apertura dialogica gratuita nei confronti dell'uomo[34].
La prima idea a cui dobbiamo far riferimento, pertanto, è costituita dalla realtà del carattere personale dell'agire creativo o, limitandoci al nostro argomento, dalla dimensione personale che l'onnipotenza manifesta. Questo attributo, infatti, fa riferimento in prima istanza all'agire divino ad extra: non ha molto senso esprimerlo in termini assoluti dicendo semplicemente che Dio può fare tutto, giacché, per esempio, Dio non può fare un altro Dio. Il senso preciso con cui possiamo dire che Dio è onnipotente presuppone che Lui veramente abbia fatto; e l'agire divino costituisce il limite stesso del contenuto del concetto di onnipotenza: possiamo parlare della potenza divina soltanto in relazione a ciò che di fatto Dio ha creato, nella sua realtà attuale o possibile: Staniloae afferma che la creazione è la «kenosi volontaria dell'onnipotenza di Dio»[35]. La manifestazione dell'onnipotenza divina consiste propriamente, quindi, nella volontarietà e nel conseguente carattere personale dell'Essere onnipotente, nel fatto che ha creato le cose che ha voluto.Non sarebbe sufficiente dire che onnipotente è colui che può fare tutto ciò che vuole, giacché senza l'attualizzazione concreta –colui che ha fatto– quest'espressione non aggiunge nulla all'idea di Ipsum esse subsistens. Un'ipotetica potenza universale impersonale non sarebbe un creatore onnipotente.
La volontà che si manifesta nell'onnipotenza personale non può essere mossa da nessuna forza esterna né può essere limitata nelle stesse sue opere da nessun tipo di condizionante interno: deve essere mossa soltanto dal bene e limitata unicamente dal suo volere. Se a questo si aggiunge che l'agire creativo dell'onnipotente personale produce a sua volta esseri personali, facendo un piccolo salto nel discorso, si può dire che l'onnipotenza creativa è rivelazione dell'amore di Dio. La creazione si struttura, quindi, non come mero rapporto Causa-effetto, ma come relazione di Persona a persona. In definitiva, l'onnipotenza personale che crea esseri a sua volta personali si deve concettualizzare —e in questo senso può chiamarsi rivelazione— come amore onnipotente. Al contrario, se l'onnipotenza non si riesce a vedere come realtà personale, non è possibile capire la creazione come rivelazione dell'amore. Si potrebbe anche concludere che un Dio-amore non avrebbe creato un mondo senza “persone”: secondo il famoso testo di Gaudium et spes 24, l'uomo «in terra è l'unica creatura che Dio abbia voluto per se stessa».
Ma la logica dei concetti, collegandoci col tema di questo lavoro, comporta che una creazione-rivelazione dell'Amore deve escludere qualsiasi volontà di male nell'amato[36]. Dio non può volere la sofferenza dell'uomo se questa deve essere interpretata come male in senso definitivo: è capibile soltanto come stadio iniziale verso realizzazioni piene, come male provvisorio da cui può scaturire un bene finale. La domanda allora è come la Rivelazione avvera questo passaggio dal male al bene. Finora resta saldo che soltanto l'interazione mutua tra l'idea di Dio-onnipotenza e l'idea di Dio-amore lascia aperta la strada verso un'ulteriore approfondimento: negare uno dei due concetti o affermarli unilateralmente comporta rinunciare a dare un senso al problema del dolore e quindi all'eutanasia. Al contempo, però, bisogna fondare teologicamente il concetto di Dio-amore, giacché da solo non da ragione sufficiente di se stesso.
V. Tempo e dolore come ambito dell'Amore onnipotente: dimensione trinitaria.
Aprendoci alla Rivelazione di Dio su se stesso, l'idea biblica anticotestamentaria manifesta la realtà di una creazione fatta da un creatore onnipotente amoroso, indicando questo agire divino come fondamento del grande tema dell'Alleanza. Il dono divino della creazione, espressione della trasmissione di bontà («e Dio vide che era cosa buona») tramite un atto personale (carattere verbale della creazione), è indirizzato a ulteriori e più profonde realizzazioni: creazione e salvezza sono saldamente collegate, l'una è la realizzazione dell'altra. Questo comporta che la creazione è stata voluta da Dio in situazione non definitiva, in stato di via: c'è una strada da percorrere prima di arrivare alla situazione di termine[37].
Il rapporto personale stabilito tra Dio e l'uomo nella creazione si dà nel tempo. L'uomo è creato persona storica, soggetto permanente della temporalità ed in grado di determinarla. La vicendevolezza che richiede di per sé l'amore con cui Dio l'ha creato e lo ha posto in una situazione superiore al resto delle creature, si da in una successività di risposte. Fin tanto che l'uomo vive nel tempo, la sua risposta personale amorosa a Dio non è definitiva. Il motivo per cui Dio ha voluto questa provvisorietà, si individua considerando che una creazione in stato di via può essere migliore nel suo insieme che una creazione uscita da Dio già “completata”. Ma questa espressione è vera soltanto se il passaggio allo stato di termine comporta il sorgere di qualcosa di positivo, che non poteva essere incluso in un'ipotetica creazione “completata”.
A prima vista questa “qualcosa” non può che far riferimento alla libertà: il più grande dei doni naturali di Dio all'uomo, che si trova alla base del suo essere personale e storico, col quale la creatura può gestire insieme a Dio il suo percorso ed essere veramente nella successività l'altro dell'amore vicendevole che il Creatore ha voluto avere con l'uomo. La libertà, in questo senso, ha una sua componente essenzialmente teleologica. Non è mera indeterminazione, ma ha il compito di portare la temporalità verso un fine preciso, non determinato da essa, ma ricevuto.
Ma la libertà nel tempo comporta la precarietà e, soprattutto, la possibilità del non raggiungimento dello stato di termine, sia come situazione definitiva, sia come orientamento in ogni istante delle coordinate esistenziali dell'uomo verso la pienezza finale. Prendendo come dato di partenza la temporalità, è chiaro che questa possibilità di male (non raggiungimento intenzionale dello stato di termine a cui si è chiamato) costituisce una dimensione manifestativa dell'amore divino, giacché una creazione così è migliore di una creazione in cui l'uomo non possa dare una risposta libera o possa darla soltanto atemporalmente. Dire questo, però, non soltanto non risponde alla questione di partenza, ma aggrava ulteriormente la situazione: sorgono infatti, due nuove domande: visto che la libertà non richiede né tempo né spazio (anche gli angeli sono stati, a modo loro, viatores), perché una creazione temporale è migliore di una creazione atemporale?; e soprattutto, perché la possibilità del male non rimane come mera possibilità, senza attualizzarsi? Di fatto, nulla richiede nell'ordine ontologico di Dio o della creatura che il male passi da possibile a reale. Sia chiaro che non si tratta di cercare una risposta a queste domande nella linea delle rationes necessariae, ma di sceverare nell'ambito della Rivelazione elementi per una cornice di senso al problema antropologico.
Prendendo in considerazione la prima domanda risulta evidente la difficoltà di rispondere. L'essere spazio-temporale dell'uomo sembra a prima vista niente altro che il fondamento ultimo della sua possibilità di sofferenza. La struttura ontologica del creato comporta di per sé la finitezza, l'interazione materiale tra le diverse creature (subordinazione), la precarietà e la contingenza, la vita biologica legata alle leggi della materia... E sembra che tutto questo, anche cambiando modalità, non potrebbe radicalmente essere in un altro modo, visto che la creatura sempre e comunque deve rimanere segnata dal limite: soltanto Dio è illimitato. Allora l'asserzione di un'onnipotenza amorosa che, abbiamo detto, deve includere il non volere il male della creatura non sembra mantenibile: perché qui non si tratta già di possibilità del male, come quando si faceva riferimento alla libertà, ma di reale presenza di limitazioni causanti dolore nella struttura stessa del creato.
La constatazione dell'esperienza del rifiuto di queste realtà da parte dell'uomo, e la presenza della domanda sul senso (la problematicità della sofferenza è anteriore a qualsiasi argomentazione razionale) ci fanno capire che l'ordine creazionale spazio-temporale non è l'ambito in cui si pone la questione. Di fatto, il solo concetto di limite non comporta l'idea di sofferenza[38]: altrimenti neanche i beati smetterebbero di soffrire. Una prima risposta all'antinomia arriva dalla Sacra Scrittura per via “fenomenologica”: all'inizio della creazione Dio ha dato all'uomo, e a tutto il creato in lui, i cosiddetti beni praeternaturali, coi quali l'onnipotenza divina liberava all'uomo dalle esperienze dolorose che sarebbero proprie della sua situazione intracosmica. I cosiddetti doni praeternaturali ricuperano l'idea di un Onnipotente amoroso che non vuole il male della sua creatura; ma da soli comportano una spiegazione imperfetta: come se Dio avesse bisogno di manovre estrinseche al creato per poterlo proteggere, perché questo possa essere rivelazione del suo amore.
La risposta vera e, in definitiva, la ragione ultima dell'esistenza dei beni praeternaturali, va in un'altra linea: la questione reale è che l'onnipotenza divina per manifestarsi personale e amorosa non può fermarsi ad un dono limitato dall'ontologia della creazione, anche se, come si è già detto, costituisce sempre una restrizione volontaria dell'onnipotenza. Mentre l'onnipotenza ad extra è sempre soggetta al limite, la vera onnipotenza si manifesta nell'illimitatezza del donarsi di Dio stesso: la donazione nella grazia. I doni praeternaturali, infatti, si capiscono soltanto alla stregua dei doni soprannaturali. In altre parole, la creazione include, nel suo essere manifestazione dell'onnipotenza amorosa, l'avere il suo apice, la sua perfezione, nel dono infinito di Dio stesso alla creatura, creata finita ma, in quanto immagine, capace di infinito. In quelle condizioni originarie la creazione era di fatto libera della sofferenza.
Il dono della grazia, quindi, ci rimanda alla rivelazione della vita intradivina nel creato: «La verità che Dio è Amore costituisce come l'apice di tutto ciò che è stato rivelato “per mezzo dei profeti e ultimamente per mezzo del Figlio…”, come dice la Lettera agli Ebrei (Eb 1, 1). Tale verità illumina tutto il contenuto della Rivelazione divina, e in particolare la realtà rivelata della creazione e quella dell'Alleanza. Se la creazione manifesta l'onnipotenza del Dio-Creatore, l'esercizio dell'onnipotenza si spiega definitivamente mediante l'amore. Dio ha creato perché poteva, perché è onnipotente; la sua onnipotenza, comunque, era guidata dalla Sapienza e mossa dall'Amore. Questa è l'opera della creazione»[39]. L'onnipotenza si realizza, quindi, all'interno della Vita di comunione intratrinitaria tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, fa parte di essa[40].
L'onnipotenza, in sintesi, non si può capire pienamente se non in quanto riferita alla vita di comunione delle tre Persone, alla quale abbiamo accesso nello Spirito per l'agire salvifico del Verbo incarnato: è la potenza stessa della Vita intradivina che diventa onnipotenza amorosa nella sua comunicazione ad extra nella creatura personale. Ovviamente, il termine ad extra, si riferisce qui non all'agire creativo, ma all'ambito delle missioni delle divine Persone: in questo senso, rimanda in ultima istanza alla Persona inviante, a cui si appropria l'onnipotenza che deve essere rivelazione dell'amore: «quando il teologo non riesce a testimoniare più il Padre in modo convincente, la coscienza cristiana ha paura della figura terribile dell'Onnipotenza arbitraria»[41].
Conseguentemente, possiamo dire che la causa ultima del male nel creato non sono né la finitezza né il limite, ma l'aver perso, la creazione stessa, questa sua perfezione originaria, l'essere diventata imperfetta[42]: mentre l'uomo ha mantenuto il legame presente all'inizio della creazione tra lui e il Creatore Unitrino, la sofferenza non si è affacciata alla storia, perché in qualche senso si mantiene la sua perfezione creaturale. Soltanto quando la creazione è diventata difettiva, perché il peccato ha rotto quel legame, ha dovuto fare i conti con la realtà del dolore[43]. Con questo si risponde alla questione del limite, giacché la sofferenza non dipende da esso, ma dall'imperfezione introdotta nell'ordine creaturale dalla libertà umana. Ma rimane ancora senza risposta la domanda sul perché dell'essere spazio-temporale dell'uomo: la corporeità continua a costituire per noi un mistero radicale. Davanti alla strada sbarrata, l'unica possibilità consiste nel rimandare questa domanda alla eventuale risposta della seconda: al perché dell'avverarsi della possibilità del male.
VI. La Misericordia onnipotente: dimensione cristica.
Il tentativo di rispondere a quest'ultima incognita ci rimanda alla radicale unità, che si da in Cristo, tra la rivelazione della Trinità e l'opera redentiva. Ritorniamo alla misericordia, da dove siamo partiti. L'onnipotenza, espressa tramite l'Incarnazione, si manifesta in favore dell'uomo: «Dio ha stabilito in Gesù Cristo una nuova ed eterna alleanza con gli uomini. Ha posto la sua onnipotenza al servizio della nostra salvezza»[44]. Vedere l'onnipotenza come strumento della nostra salvezza richiede, comunque, una trattazione previa della questione del peccato.
A questo proposito diceva Giovanni Paolo II nell'enciclica sullo Spirito Santo: «Descrivendo la sua “dipartita” come condizione della “venuta” del consolatore, Cristo collega il nuovo inizio della comunicazione salvifica di Dio nello Spirito Santo al mistero della redenzione. Questo è un nuovo inizio, prima di tutto perché tra il primo inizio e tutta la storia dell'uomo —cominciando dalla caduta originale— si è frapposto il peccato, che è contraddizione alla presenza dello Spirito di Dio nella creazione ed è, soprattutto, contraddizione alla comunicazione salvifica di Dio all'uomo. Scrive San Paolo che, proprio a causa del peccato, “la creazione ... geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto” e “attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio” (cfr Rm 8, 22-25)»[45]. Si sottolinea così la chiave pneumatologica di quanto detto nel punto precedente, cioè, l'essere il peccato, in quanto causante della perdita della comunicazione salvifica di Dio all'uomo, la causa del gemere della creatura. Il ruolo dello Spirito Santo in quanto nesso ad extra, fondato sulla sua specifica funzione intratrinitaria, viene di fatto restaurato come conseguenza della pienezza della missione del Figlio.
In questa linea, includendo già nel discorso il dato definitivo del superamento del peccato nell'opera redentiva e il misterioso concetto della felix culpa, il Pontefice, in un altro luogo dello stesso documento, concludeva : «Di fronte al mistero del peccato bisogna scrutare “le profondità di Dio” fino in fondo. Non basta scrutare la coscienza umana, quale intimo mistero dell'uomo, ma bisogna penetrare nell'intimo di Dio»[46]. Senza «penetrare nell'intimo di Dio», quindi, non soltanto non si percepisce la realtà del mysterium iniquitatis, ma non si può neanche trovare una via di uscita.
Infatti, una volta svelata all'uomo la profondità di male radicale del peccato, si dovrebbe chiudere la porta ad ogni speranza e risolvere in negativo il problema del senso del dolore, in quanto questo non sarebbe altro che l'espressione della persistente e ineluttabile «vicinanza al nulla»[47] provocata nella creatura dall'allontanamento da Dio e dalla Vita.
La rottura della comunione con la Trinità offusca nell'uomo l'essere dialogico, fondato sull'essere immagine di Dio[48]: in una fortunata espressione di Cornelio Fabro, la coscienza di peccato è «l'isolante assoluto, perché il peccato è soltanto mio»[49]. La perdita della dimensione ultima della capacità dialogica ha innanzi tutto come conseguenza l'incapacità umana di realizzare l'aspirazione alla felicità che, abbiamo visto, si fonda sulla comunione interpersonale. Inoltre, la chiusura dialogica dell'essere umano comporta l'impossibilità di apertura comunicativa con la realtà che lo trascende, che è l'ultima chiave degli enigmi della sua esistenza. Si può concludere in primo luogo che Dio non è la causa dell'infelicità dell'uomo, perché non è Lui a rompere la comunicazione; in secondo luogo, la situazione di infelicità non è risolvibile per iniziativa dell'uomo, incapace di ricreare il dialogo: non avendo lui una parola da rivolgere a Dio, deve darsi di nuovo il Logos divino all'uomo.
La forza dell'onnipotenza divina si fa presente di nuovo per manifestare che «nessun peccato umano prevale su questa forza e nemmeno la limita»[50], attraverso la sua nuova espressione amorosa nella redenzione operata dal Logos incarnato. Ma la redenzione di fatto, non ha cancellato la sofferenza. Ha comportato, invece, la speranza sicura nella sua sconfitta[51]. Bisognerebbe anche rispondere al perché di questa dilazione. In ogni caso, rimane chiaro che la confessione di fede nella remissione dei peccati, contenuta nel Simbolo, si trova alla base della possibilità di sperimentare la persistenza della sofferenza come qualcosa di positivo.
Mi si permetta, per continuare, di riprendere ancora l'argomento dell'inadeguatezza di rimandare a questo punto il problema alla questione della libertà: secondo alcuni — non pochi — il grande bene che essa comporta alla natura umana sarebbe il motivo per il quale Dio avrebbe permesso il peccato e con esso la sofferenza dell'umanità. La libertà invece, ripeto, non include necessariamente l'avverarsi del peccato: la partecipazione all'essere dominum di Dio, in cui essa consiste, include in un essere successivo —uomo o angelo— la possibilità di peccare, ma non l'inevitabilità di peccare.
Affermare che la permissio divina è conseguenza del dono della libertà, comporta dire che Dio non è ontologicamente onnipotente —non potrebbe creare un essere libero che, anche se in quanto finito dovesse essere peccabile, fosse di fatto non peccante— e, a livello esistenziale, che il peccato è una componente umana che troverebbe la sua struttura ultima nella stessa costituzione creaturale storicamente concreta dell'essere umano: un peccato senza colpa e senza pena[52]. E se così fosse, il dolore non dovrebbe creare un problema di senso.
Maria, con la sua libertà creata spazio-temporale, libertà di fatto non peccante, è la dimostrazione concreta di questo aspetto dell'onnipotenza divina; ma lo sono di più, in un certo senso, le libertà create peccanti redente, giacché, in definitiva, l'ulteriore espressione dell'onnipotenza si dà quando nell'Uomo, Figlio di Maria, si realizza la redenzione di tutte le libertà, la loro riconnessione con la Vita. D'altra parte anche la stessa Madre di Dio deve la sua peculiare condizione all'inserimento anticipato in questa dinamica di salvezza.
L'economia redentiva dell'Incarnazione, quindi, diventa la chiave di volta. «Appunto perché esiste il peccato nel mondo, che “Dio ha tanto amato … da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16), Dio che “è amore” (1Gv 4,8) non può rivelarsi altrimenti se non come misericordia»[53]. L'incarnazione rivela l'onnipotenza al servizio dell'uomo tramite la sua relazione col peccato: «al più grande peccato da parte dell'uomo corrisponde, nel cuore del Redentore, l'oblazione del supremo amore, che supera il male di tutti i peccati degli uomini»[54]. Il Verbo incarnato, non solo manifesta l'Amore tramite l'unione che in Lui si realizza tra Dio e l'uomo, il che sarebbe già espressione eminente dell'onnipotenza trinitaria, ma anche raggiunge il livello massimo rivelativo tramite l'economia con cui, distruggendo il peccato, riammette l'uomo alla comunione trinitaria, a cui da solo non poteva aspirare più: «la più grande forza è quella che si manifesta in un amore totale, e che conquista l'amore totale degli altri»[55].
Cioè, la risposta, sempre al di qua del mistero, alla seconda domanda —il perché dell'avverarsi della possibilità del male—, include l'idea teologica di permissio divina del peccato, fondata sulla realizzazione di una rivelazione più alta dell'amore come misericordia, che richiede la confessione dell'onnipotenza come condizione del fatto che Dio non è costretto da nulla all'ora di mettere in moto l'economia redentiva: se Dio non potesse fare a meno del peccato, non potrebbe neanche fare a meno, in definitiva, dell'operare la nostra salvezza: altrimenti il peccato avrebbe distrutto il suo disegno originario, e non sarebbe pensabile una sua rivelazione come Amore (onnipotenza trinitaria). Ma un Dio buono e impotente davanti al male, che non può non salvare, è contraddittorio; una costrizione così è frutto di una necessità che non si addice alla sua natura: o non sarebbe Dio, o non sarebbe Amore.
Per disegno divino, l'espressione storica di questa forza ha comportato l'assunzione da parte di Cristo delle conseguenze del peccato, il loro annichilimento dal di dentro: Gesù di Nazaret, in quanto manifestazione nella storia della potenza dell'Amore che Dio è, fa suo il dolore, per vincerlo: «è venuto sulla terra per soffrire … e per risparmiare le sofferenze —anche quelle terrene— agli altri»[56].
Infatti, se la rivelazione di un Dio che permette il peccato per manifestare la sua misericordia, non includesse l'annullamento delle conseguenze di esso, questa rivelazione non sarebbe sperimentabile da parte dell'uomo. Allora, anche se queste conseguenze non spariscono di fatto (il dolore è sempre presente, e non sembra possibile una futura vittoria su di esso dalla prospettiva intraterrena) ci è data la sicura speranza nella loro sconfitta. In base a questa speranza l'esperienza della salvezza acquista una dimensione escatologica. E la prova che l'uomo possiede del futuro trionfo sulla sofferenza, in modo da trovare così un senso alla sua sopportazione, risiede appunto nel fatto di sapere che questa è diventata in Cristo proprio lo strumento della sua redenzione.
In altre parole, il mistero della Passione e della Croce di Cristo, e la conseguente valenza salvifica della sofferenza, sono il culmine della manifestazione dell'onnipotenza divina. L'attuale Pontefice afferma: «se nella storia umana è presente la sofferenza, si capisce perché la Sua onnipotenza si è manifestata con l'onnipotenza dell'umiliazione mediante la Croce. Lo scandalo della Croce rimane la chiave di interpretazione del grande mistero della sofferenza, che appartiene in modo così organico alla storia dell'uomo»[57]. E più avanti accenna l'argomento ad adsurdum: «Dio è sempre dalla parte dei sofferenti. Ma la Sua onnipotenza si manifesta proprio nel fatto che ha accettato liberamente la sofferenza. Avrebbe potuto non farlo … Se fosse mancata quell'agonia sulla croce, la verità che Dio è Amore sarebbe sospesa nel vuoto»[58].
Pertanto, il dover soffrire di Cristo —e di tutta l'umanità in Lui— acquista un senso radicale nel suo carattere strumentale salvifico, fondato sull'onnipotenza misericordiosa. L'onnipotenza che si manifesta nell'Essere divino è la condizione di possibilità; l'onnipotenza trinitaria, ammettendo l'uomo al dialogo intradivino tramite l'Incarnazione, permette che la sua sofferenza diventi sofferenza di Cristo.
Su questo sfondo possiamo illuminare in qualche forma la prima domanda. La verità del limite spazio-temporale dell'essere dell'uomo, condizione della sua passibilità, può essere vista adesso, all'interno del disegno divino, come la forma concreta con cui Dio ci ha dato la possibilità di partecipare all'opera della redenzione e, pertanto, all'espressione massima della sua onnipotenza. L'uomo è in certo senso onnipotente, perché il suo limite gli permette il passo all'illimitatezza dell'Amore divino.
Ma prima ancora, in riferimento non tanto all'istrumentalità salvifica, quanto all'origine, possiamo vedere il dono della spazio-temporalità come la condizione che —sempre in dipendenza della infinitamente libera volontà creatrice— rende possibile lo stesso disegno divino. Infatti, non basta essere successivi per essere capaci del perdono e della trasformazione che l'opera della redenzione e la rivelazione della misericordia comportano: alla successività si devono aggiungere delle ulteriori possibilità di rifacimento anteriori allo stato di termine: la libertà deve essere storica. In definitiva, perché siamo spazio-temporali, possiamo essere perdonati. La nostra finitezza, che potrebbe sembrare un paradosso all'idea dell'onnipotenza, è condizione di possibilità della sua manifestazione massima nell'amore più forte della morte. Proprio in questo l'uomo può considerarsi al vertice della creazione, in certo modo superiore all'angelo, che pur avendo anche lui un percorso da fare per arrivare alla salvezza in Cristo (successività tra lo stato di via e lo stato di termine), non può essere perdonato. In definitiva, la prova della storia giova a una libertà creata.
VII. La risposta cristiana all'eutanasia: la liberazione della sofferenza come impegno nella storia
La vittoria sul dolore e sulla sofferenza, anche se si è data in tensione escatologica, fa parte integrante dell'agire storico di Cristo in quanto Verbo incarnato. Per questo motivo il cristiano ha il compito intrinseco di collaborare, in virtù della sua unione storica a Cristo nello Spirito e nella Chiesa, alla manifestazione di questa vittoria, sforzandosi di rimuovere le conseguenze dell'imperfezione introdotta dal peccato nel cosmo. Il cristiano non può non vivere questo impegno per debellare la sofferenza, perché esso forma parte della richiesta che l'uomo ha di manifestare il Dio-Amore onnipotente, di essere la sua immagine nel mondo. La creazione ferita dal peccato dell'uomo viene messa nella mani dell'uomo perché sia lui lo strumento della sua liberazione, la cifra della sua speranza: essa «attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8, 19).
L'unione vitale a Cristo nella grazia, nella quale l'uomo, nello Spirito Santo, viene coinvolto in prima persona nel dialogo salvifico, fa che questo impegno di liberazione dallo stato sofferenza non possa essere visto unicamente nella sua componente storica: non è solo compito intraterreno, ma vera attività salvifica. In questo senso la vita terrena del cristiano diventa espressione dell'onnipotenza divina[59].
Inoltre, l'accettazione libera della sofferenza in quanto conseguenza del peccato manifesta e realizza nel singolo l'agire storico del Verbo incarnato. Anzi, la stessa sofferenza, vinta già ma non ancora, è diventata strumento di salvezza: perciò si capisce la paradossale persistenza della sofferenza dopo il trionfo di Cristo, che si spiega per gli stessi motivi per cui viene rimandata escatologicamente la manifestazione piena della sua vittoria.
La realtà storica della risurrezione è il segno di questa vittoria. Portando a pienezza una temporalità che per volere di Dio rimane ancora aperta, questa verità di fede dà al credente la certezza della speranza di fronte all'esperienza del dolore, nel momento in cui l'istanza anteriore —l'impegno cristiano per farla sparire— si scopre incapace di una vittoria definitiva nel tempo.
L'Amore, quindi, adoperando la sofferenza come sistema per portare a perfezione l'imperfetto[60], da così un valore positivo al sempre rimanente dolore umano, presupposta l'identificazione con Cristo a cui — nella diversità delle economie di salvezza — ogni uomo è chiamato. Questa solidarietà con Cristo nel dolore redentivo è stata manifestata con un'immagine illuminante da Michael Schmaus: seguendo l'insegnamento agostiniano, secondo il quale il Cristo storico diventa Christus totus tramite l'incorporazione della Chiesa come suo Corpo Mistico, la passione di Cristo diventa passio tota in virtù della passione di tutti gli uomini uniti a Lui; e come la prima ha la potenza di operare la redenzione, così la seconda acquista valenza salvifica[61].
Così questa dimensione ecclesiale determina ancora una risposta alla possibile questione sul perché del perdurare della sofferenza. Infatti, mentre la storia non arriverà alla sua pienezza e si compirà il numero degli eletti voluto dall'Amore, la modalità della redenzione continuerà ad essere presente nel mondo in forma di dolore umano e divino. Anche questa verità richiede la confessione dell'onnipotenza che non è limitata dalle coordinate spazio-temporale, anzi, le trascende: se mantiene la tensione escatologica, che è anche espressione della sua sofferenza volontaria, lo fa per chiamare ed includere altri membri nel suo Corpo Mistico.
Così, l'inserimento dell'uomo nel dialogo salvifico tra il Padre e il Figlio non comporta soltanto, come detto prima, l'impegno di liberazione della sofferenza, ma la sua stessa accettazione come strumento di salvezza. In Cristo, il dolore dell'uomo acquista il suo valore ultimo intraterreno nell'espiazione, —qui intesa, molto limitatamente, come via di ripristino della condizione originaria—, e per questo diventa espressione e partecipazione umana all'Onnipotenza misericordiosa che Lui, nella sua Passione, manifesta. L'accettazione del dolore come realtà strumentale di salvezza diventa per l'uomo credente conferma ed esperienza del Dio-amore onnipotente.
La risposta cristiana alla sofferenza, quindi, non sarà mai la soppressione del sofferente, ma il deciso impegno intraterreno per alleviare il dolore dell'uomo, in ogni aspetto esso possa apparire. Impegno che, ripeto, è specificamente cristico. E quando ciò non è possibile, è la Croce di Cristo e il suo carattere universale la chiave ultima che permette al credente la determinazione nel non ammettere eccezioni al principio fondamentale della sacralità di ogni vita.
[1] Pubblicato in «Uomini e idee» 7 (2000) 21-45.
[2] La questione della definizione dell'eutanasia è di trascendentale importanza, giacché il termine può essere applicato a una radicale diversità di atteggiamenti di fronte al soggetto sofferente. Nel dibattito in corso è frequente trovare autori che, non sempre con intenzione retta, cambiano arbitrariamente il significato della parola, secondo le esigenze della posizione dialettica, provocando così il disorientamento e la confusione e, in definitiva, la sterilità del dialogo. In questo articolo, seguendo la sistematica di I. Ortega, Eutanasia: Etica y Ley frente a frente (Roma, 1996), pp. 11-12, intendiamo come elementi essenziali de la definizione di eutanasia, i seguenti: a) l'intenzione del soggetto agente è quella di provocare la morte di una persona umana che soffre dolori insopportabili o che si trova in condizione di incapacità o di perdita della propria dignità; b) ciò può prodursi sia per azione che per omissione, come negare l'assistenza medica dovuta; c) l'azione si realizza sia con il consenso della persona sofferente o senza di esso, se non è possibile ottenerlo. Conseguentemente, non si considerano eutanasia: a) le terapie terminali atte a fare sopportabile la fase finale di una malattia, anche se con esse si accorcia la vita del paziente; b) la rinuncia in determinati casi ai cosiddetti mezzi straordinari della medicina, quando questi servissero unicamente al prolungamento artificiale della vita senza speranza di guarigione.
[3] Cfr. Congregazione del Santo Ufficio, De directa insontium occisione ex mandato auctoritatis publicae peragenda, in «Acta Apostolicae Sedis» 32 (1940) 553-554; condanna dell'opera di W. Stroothenke, Erbpflege und Christentum, in cui si afferma il diritto dello stato all'eutanasia dei soggetti socialmente inutili, in «Acta Apostolicae Sedis» 33 (1941) 69. Lo stesso Pontefice, nella sua lettera enciclica Mystici corporis del 29.06.1943 denuncia con sofferenza inaudita l'eliminazione di malati terminali o gravosi per la società: “Horum igitur sanguis, qui sunt Redemptoris nostro idcirco cariores, quod maiore sunt miseratione digni, clamat ad Deum de terra”, in «Acta Apostolicae Sedis» 35 (1943) 239. L'abbondanza di dichiarazioni in questo senso di Pio XII è impressionante: Cfr. Discorso ai Parrocci di Roma (23.02.1944); all'Unione Italiana Medico-biologica “San Luca” (12.11.1944); ai Partecipanti al VI Congresso Internazionale di Chirurgia (21.05.1948); ai Partecipanti al IV Congresso Internazionale dei Medici Cattolici (29.09.1949); alle Partecipanti al Congresso dell'Unione Cattolica Italiana delle Ostetriche (25.10.1950); al I congresso Internazionale di Istopatologia del Sistema Nervoso (14.09.1952); ai Medici militari (19.10.1953); al VII Congresso Internazionale dei Medici Cattolici (11.09.1956)...
[4] Cfr. Pio XII, Allocuzione del 24.02.1957, in «Acta Apostolicae Sedis» 49 (1957) 147.
[5] Cfr. Paolo VI, Discorso ai partecipanti al III Congresso Mondiale dell'International College of Psychosomatic Medicine, 19.12.1975, in «Acta Apostolicae Sedis» 67 (1975) 545; anche, per quanto riguarda la dignità della persona umana, Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull'aborto procurato, 18.11.1974, in «Acta Apostolicae Sedis» 66 (1974) 737-738.
[6] “The precious right of life must be affirmed anew, together with the condemnation of that massive aberration wich is the destruction of innocent human life, at whatever stage it may be, through the heinous crimes of abortion or euthanasia”, Paolo VI, Discorso al Comitato Speciale delle Nazioni Unite per la Segregazione Raziale, 22.05.1974, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. XII, Città del Vaticano 1975, p. 461.
[7] «Acta Apostolicae Sedis» 72 (1980) 542-552.
[8] «Acta Apostolicae Sedis» 87 (1995) 401-522.
[9] “Se così grande attenzione va posta al rispetto di ogni vita, persino di quella del reo e dell'ingiusto aggressore, il comandamento «non uccidere» ha valore assoluto quando si riferisce alla persona innocente. E ciò tanto più se si tratta di un essere umano debole e indifeso, che solo nella forza assoluta del comandamento di Dio trova la sua radicale difesa rispetto all'arbitrio e alla prepotenza altrui. In effetti, l'inviolabilità assoluta della vita umana innocente è una verità morale esplicitamente insegnata nella Sacra Scrittura, costantemente ritenuta nella Tradizione della Chiesa e unanimemente proposta dal suo Magistero. Tale unanimità è frutto evidente di quel «senso soprannaturale della fede» che, suscitato e sorretto dallo Spirito Santo, garantisce dall'errore il popolo di Dio, quando «esprime l'universale suo consenso in materia di fede e di costumi». Dinanzi al progressivo attenuarsi nelle coscienze e nella società della percezione dell'assoluta e grave illiceità morale della diretta soppressione di ogni vita umana innocente, specialmente al suo inizio e al suo termine, il Magistero della Chiesa ha intensificato i suoi interventi a difesa della sacralità e dell'inviolabilità della vita umana. Al Magistero pontificio, particolarmente insistente, s'è sempre unito quello episcopale, con numerosi e ampi documenti dottrinali e pastorali, sia di Conferenze Episcopali, sia di singoli Vescovi. Né è mancato, forte e incisivo nella sua brevità, l'intervento del Concilio Vaticano II. Pertanto, con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale. Tale dottrina, fondata in quella legge non scritta che ogni uomo, alla luce della ragione, trova nel proprio cuore (cf. Rm 2, 14-15), è riaffermata dalla Sacra Scrittura, trasmessa dalla Tradizione della Chiesa e insegnata dal Magistero ordinario e universale”, Evangelium Vitae, 57.
[10] “Fatte queste distinzioni, in conformità con il Magistero dei miei Predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale”, Evangelium Vitae, 65.
[11] Cfr. Concilio Vaticano II, Cons. past. Gaudium et spes, 24c.
[12] Cfr. 2Pt 1,4.
[13] Si tratta di una istanza che non si desume unicamente dall'insegnamento biblico: la sofferenza come via di apertura dell'uomo verso la trascendenza è molto presente nella cultura mitica e in quella classica. Troviamo un'espressione privilegiata di questa tensione, di palese sapore classico, nell'opera poetica di Friedrich Hölderlin: «Wir sind nichts; was wir suchen ist alles», Frammento di Ipperione, Il Melangolo, Genova 1989, p. 58. Sulle condizioni di possibilità di questo passaggio, il filosofo Leonardo Polo, la cui antropologia trascendentale fornisce una solida base filosofica a quest'argomento, si esprime così: «Los clásicos —ni ingenuos ni infantiles— eran perfectamente coscientes de que entre la realidad empírica —lo que se constata de hecho— y los altos ideales hay una distancia muy difícil de colmar: no la negaron nunca (…) Siempre admitieron que la optimación del hombre —o sea, la aventura de alcanzar, partiendo de la situación empirica constatable (llena de quiebras, de debilidades, de todos los defectos que se quiera), una comunicación con el Absoluto— es empresa ardua: pero no imposible, no utópica; tiene sentido, a pesar de que cuando uno contempla lo inmediato muchas veces podría desanimarse al apreciar entre el ideal humano y lo inmediato un desnivel fabuloso que exige, para ser salvado, una áspera lucha. En rigor, lo exige todo», L. Polo, Presente y futuro del hombre, Rialp, Madrid 1993, p. 97.
[14] Cfr. J.M. Galvan, Il problema teologico degli attributi divini(I): considerazioni metodologiche, in «Annales theologici» 8 (1994) 285-313, di cui questo articolo è continuazione.
[15] “Fino a che punto l'esperienza della vulnerabilità dell'esistenza porta con sé l'idea che la propria morte è sempre possibile e minacciosa? L'idea che si è mortali deriva solamente dall'esperienza della propria vulnerabilità, o è una nozione provocata dalla reiterata esperienza di vedere morire gli altri? In che modo un"Robinson puro" giungerebbe alla conoscenza o al sospetto della propria mortalità? (…) A mio giudizio, entrambe le esperienze sono necessarie ed entrambe si coinvolgono a vicenda: la visione della morte altrui illumina o conferma in noi il sentimento della nostra vulnerabilità e rivela il suo carattere potenzialmente letale, e la consapevolezza di questa nostra sostanziale vulnerabilità ha in nuce una certa intuizione della nostra sempre allarmante mortalità”: P. Lain Entralgo, Antropologia medica, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p. 233.
[16] “Nella contrapposizione paolina dello «spirito» e della «carne» è inscritta anche la contrapposizione della «vita» e della «morte». Grave problema, questo, circa il quale bisogna dire subito che il materialismo, come sistema di pensiero, in ogni sua versione, significa l'accettazione della morte quale definitivo termine dell'esistenza umana. Tutto ciò che è materiale, è corruttibile e, perciò, il corpo umano (in quanto «animale») è mortale. Se l'uomo nella sua essenza è solo «carne», la morte rimane per lui un confine e un termine invalicabile. Allora si capisce come si possa dire che la vita umana è esclusivamente un «esistere per morire»” Giovanni Paolo II, litt. Enc. Dominium et vivificantem, 57
[17] D. Staniloae, Dio è Amore. Indagine storico-teologica nella prospettiva ortodossa, Città Nuova, Roma 1986, p. 57.
[18] Cfr. J. M. Galván,La giustizia di Dio, sorgente della giustificazione, in J. M. Galván (ed.), La giustificazione in Cristo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997, pp. 117-128.
[19] “Uno spirito esteso onticamente nello spazio (e non solamente in quanto alla sua sfera di azione) ci sembra subito un'assurdità, effetto di una grossolana confusione, frutto di un pensiero schiavo dell'immaginazione, per il quale ‘spirito' rimane ancora legato alla sua prima accezione: un fluido, un vapore, un gas (il ‘vertebrato gassoso' di Haeckel). Invece l'idea di una durata puramente spirituale, di una successione di atti, di idee, ecc., irriducibile al divenire temporale delle cose, fosse pure al divenire dell'organismo, lunghi dal racchiudere una contraddizione, ci appare facilmente come richiesta da quello che la nostra interiore esperienza ci fa conoscere dello spirito”: J. De Finance, op.cit., p. 109.
[20] “Immaginiamo ora una coscienza per la quale non ci fosse, a rigore, né prima né dopo, una coscienza che, non soltanto sarebbe fissa in uno stato immutabile, ma per la quale il nostro passato e il nostro avvenire sarebbero ugualmente presenti; siccome la distinzione, la successione reale dell'avvenire e del passato sono per noi evidenze, una tale coscienza o ci parrà fuori della realtà, oppure ci sembrerà un'illusione di ciò che per noi è la realtà. Ora proprio è una tale coscienza, al di sopra del tempo, che la metafisica classica e soprattutto la metafisica tomista attribuiscono a Dio. Si comprendono dunque le reazioni spontanee del pensiero comune e quanto sia forte la tentazione di ammettere in Dio – perché sembra impossibile liberarne lo spirito – un ‘tempo' in senso ampio, una ‘durata' comportante una specie di successione”, Ibidem p. 111-112.
[21] Staniloae, op. cit., p. 59.
[22] Questa positività della fine del tempo (mortalità) è stata alle volte specialmente sottolineata dalla letteratura, specialmente sensibile, come tutto l'arte in generale, al carattere di creatività presente nel tempo. Un esempio importante è costituito dal racconto Los inmortales, di J. L. Borges: “La muerte (o su alusión) hace preciosos y patéticos a los hombres. Estos conmueven por su condición de fantasmas; cada acto que ejecutan puede ser el ultimo; no hay rostro que esté por desdibujarse como el rostro de un sueño. Todo, entre los mortales, tiene el valor de lo irrecuperable y de lo azaroso. Entre los Inmortales, en cambio, cada acto y cada pensamiento es el eco de otros que en el pasado lo antecedieron, sin principio visible, o el fiel presagio de otros que en el futuro lo repetirán hasta el vértigo. No hay cosa que no esté como perdida entre infatigables espejos. Nada puede ocurrir una sola vez, nada es preciosamente precario. Lo elegíaco, lo grave, lo ceremonial, no rigen para los inmortales”, El Aleph, Alianza, Madrid 1975, p. 23.
[23] De Finance, op. cit., p. 143.
[24] P. Tillich, L'eterno presente, Ubaldini, Roma 1968, p. 99.
[25]Litt.enc. Dives in Misericordia, 30-XI-1980, n. 1. Cfr. anche Ibid. n. 3, per quanto riguarda la dimensione cristologica della rivelazione dell'amore misericordioso: «Gesù, soprattutto con il suo stile di vita e con le sue azioni, ha rivelato come nel mondo in cui viviamo è presente l'amore, l'amore operante, l'amore che si rivolge all'uomo ed abbraccia tutto ciò che forma la sua umanità. Tale amore si fa particolarmente notare nel contatto con la sofferenza, l'ingiustizia, la povertà, a contatto con tutta la “condizione umana” storica, che in vari modo manifesta la limitatezza e la fragilità dell'uomo, sia fisica che morale. Appunto il modo e l'ambito, in cui si manifesta l'amore, viene denominato nel linguaggio biblico “misericordia”»; e, finalmente, in riferimento alla missione della Chiesa, «...conservando sempre nel cuore l'eloquenza di queste ispirate parole, ed applicandole alle esperienze e alle sofferenze proprie della grande famiglia umana, occorre che la Chiesa del nostro tempo prenda più profonda e particolare coscienza della necessità di render testimonianza alla misericordia di Dio» Ibid. n. 12.
[26] Questo sia per quanto riguarda l'espressione credente, appropriata alla Prima Persona della Trinità —«Credo in Dio Padre onnipotente...»—, sia per quanto fa riferimento alla più fondamentale delle richieste che lo spirito umano pone nella sua apertura alla divinità nell'ambito della religiosità naturale, cercando di riempire in essa la sua ricerca di senso e fondamento.
[27] Così sembra anche indicarlo, in un testo a cui fa riferimento implicito questo lavoro, il Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 268: «Noi crediamo che tale onnipotenza è universale, perché Dio, che tutto ha creato, tutto governa e tutto può; amante, perché Dio è nostro Padre; misteriosa, perché la fede soltanto la può riconoscere allorché “si manifesta nella debolezza” (2Cor 12,9)»
[28] «Vulnerabile, mortale, debole, menomata per quanto oltrepassa i suoi limiti, sempre aperta al dolore, radicalmente incomprensibile, la nostra esistenza ha un suo valore, è pregevole. Sempre: anche quando la malattia ce la mostra sensibilmente lesa, minacciata di morte, smisuratamente menomata, acutamente dolorosa e addirittura disperatamente incomprensibile», P. Lain Entralgo, Antropologia medica, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p. 236.
[29] Il che non contraddice il fatto che la realtà della sofferenza sia anche un elemento di solidarietà umana. In questo senso il dolore, diventando motivo di con-patimento può servire anche alla rivelazione iniziale dell'amore di comunione.
[30] Giovanni Paolo II, Udienza generale, 27-04-1983, in Insegnamenti VI/1, p. 1073.
[31] Giovanni Paolo II, Discorso al Congresso Internazionale di Teologia «Portare Cristo all'uomo», 22-02-1985, in Insegnamenti VIII/1, p. 558.
[32] In un articolo, al quale rimandiamo anche per quanto si riferisce alla dimensione metafisica dell'onnipotenza, un filosofo spagnolo sottolinea come in torno a questa apparente opposizione onnipotenza-bontà sul perno del male, alcuni teologi sembrano aver presso decisamente la via di negare l'onnipotenza, pur di salvaguardare l'amore, senza badare all'incoerenza intellettuale che questo comporta: cfr. E. Romerales, Omnipotencia y coherencia, in «Revista de Filosofía» 6 (1993) 351-377
[33] Cfr. J. Marias, La felicità umana. Un impossibile necessario, Paoline, Cinisello Balsamo 1990, pp. 37-39.
[34] Quanto detto si può riassumere in queste parole, che nello stesso tempo servono come punto di continuazione: «L'analogia non funziona se non in un comportamento d'alleanza e il Dio dell'alleanza non è conosciuto che mediante l'atto effettivo della comunicazione, che doveva essere obbedienza e attesa. Il mistero, se difficile a pensare, di Dio creatore e che si implica in una storia, non è accessibile alla conoscenza quando la relazione viva è rotta. In effetti il pensiero, quando si tratta di Dio, è al limite delle sue possibilità; i concetti e i giudizi che esso forma non si sostengono se non per l'esperienza fedele dell'alleanza e, nella loro stessa duttilità, contribuiscono a mantenere questa in verità», G. Lafont, Dio, il tempo e l'essere, Piemme, Casale Monferrato 1992, p. 136.
[35] D. Staniloae, op. cit. p. 93
[36] «L'amore, per natura, esclude l'odio e il desiderio del male nei riguardi di colui, al quale una volta ha dato in dono se stesso: Nihil odisti eorum que fecisti, nulla tu disprezzi di ciò che hai creato (Sap 11, 24). Queste parole indicano il fondamento profondo del rapporto tra la giustizia e la misericordia in Dio, nelle sue relazioni con l'uomo e con il mondo. Esse dicono che dobbiamo cercare le radici vivificanti e le ragioni intime di questo rapporto risalendo “al principio”, nel mistero stesso della creazione», Giovanni Paolo II, Enc. Dives in misericordia, n. 4.
[37] Cfr. C. Journet, Per una teologia ecclesiale della Storia della Salvezza, M. D'Auria, Napoli 1971, pp. 121 ss.
[38] In riferimento al campo stretto della malattia, ecco il parere di un clinico: «In quanto suo accidente predicabile, la malattia sarà allora una “proprietà” della natura umana? Evidentemente no. L'uomo può ridere, anzi, non può non poter ridere, ma non ha l'obbligo di ridere. Analogamente, l'uomo può ammalarsi, anzi, non può non potersi ammalare, ma in nessun modo ha l'obbligo di ammalarsi e ciò è dimostrato da coloro che nel corso della propria vita non si sono mai ammalati. Quello che invece deriva necessariamente dalla condizione umana —e non perché è umana ma perché è viva— è, come sappiamo, l'“ammalabilità”, ossia, la possibilità di ammalarsi, “proprietà difettiva” di qualcosa che l'uomo è per sua natura: un essere vivo.», P. Lain Entralgo, op. cit., p. 221-222.
[39] Giovanni Paolo II, Udienza generale 02-10-1985, in Insegnamenti VIII/2, pp. 832-833.
[40] «Omnipotens Pater, omnipotens Filius, omnipotens Spiritus Sanctus; et tamen non tres omnipotentes, sed unus omnipotens», Symbolum “Quicumque” pseudo-Athanasianum: DS 75.
[41] M.-J. Le Guillou, Il mistero del Padre, Jaca Book, Milano 1979, p. 234.
[42] Al contrario, Torres Queiruga prende che a questo punto la strada di affermare che la finitezza comporta necessariamente imperfezione: cfr A. Torres Queiruga, Creo en Dios Padre. El Dios de Jesucristo como afirmación plena del hombre, Sal Terrae, Santander 1986, pp. 122-124. Questo non sembra adeguato: in termini assoluti, finitezza non implica necessariamente imperfezione, se questa si intende, in senso aristotelico, come la possesione di tutto quello che permette a un essere il raggiungimento del suo fine; usando all'inverso lo stesso esempio dell'autore a cui mi riferisco, un circolo non è imperfetto per il fatto di non essere e non poter mai essere simultaneamente un quadrato. Torres Queiruga, coerente con la sua identificazione finito-imperfetto, arriva a negare realtà storica allo stato di giustizia originaria, riducendolo a racconto mitico (cfr. p. 124). Cfr. anche su questo punto J. De Finance, Il sensibile e Dio. In margine al mio vecchio Catechismo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1990, pp. 246-247: «La finitudine non è un male, benché ne sia la condizione di possibilità, come la breccia nell'essere per la quale il male si introduce».
[43] «Come si può interpretare filosoficamente la possibilità di ammalarsi insita nella natura umana? Per rispondere a questa domanda, il pensatore scolastico si sentì costretto a passare dalla patologia all'etica, e dall'etica alla religione e alla teologia. La malattia, in effetti, è un «male fisico», e tale osservazione solleva il problema del suo significato nella dinamica della natura. Dunque, la risposta fornita comunemente dall'aristotelismo medievale o scolastico consistette nell'attribuire la possibilità dell'uomo di ammalarsi alla vulneratio provocata nella natura umana dal peccato originale» Lain Entralgo, op.cit. p. 226.
[44] Beato Josemaria Escrivà, Amici di Dio, Ares, Milano 1978, n. 190. La stessa idea è stata manifestata da Giovanni Paolo II nel recente Varcare la soglia della Speranza, Mondadori, Milano 1994: «Dio non è qualcuno che sta soltanto al di fuori del mondo, contento di essere in Se stesso il più sapiente e onnipotente. La Sua sapienza e onnipotenza si pongono, per libera scelta, al servizio della creatura», p. 68.
[45] Giovanni Paolo II, Litt. Enc. Dominum et Vivificantem, 18-V-1986, n. 13.
[46] Ibidem n. 32.
[47] «Nachbarschaft zum Nichts», M. Schmaus, Katholische Dogmatik, vol. I, ed. Max Hüber, München 1960, p. 655.
[48] Cosa costatabile anche nell'ordine naturale: «El ser que estudia la ampliación de lo trascendental es el ser-con, la persona, pues no puede ser único: sería una tragedia ontológica. Y una tragedia ontológica es imposible: lo último, lo lás importante, no puede ser trágico. La tragedia puede aparecer en la vida humana porqie el hombre peca precisamente por desvinculación del coexistir, por pretender no coexistir», L. Polo, Presente …, op.cit. p. 177.
[49] C. Fabro, Il peccato nell'esistenzialismo contemporaneo, in P. Palazzini (ed.), Il peccato nell'esistenzialismo contemporaneo, Ares, Roma 1959, p. 724.
[50] Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, n. 13.
[51] Cfr. Rm 8, 19-25.
[52] Lo svuotamento in questo senso dell'idea di peccato è presente in molti aspetti della cultura contemporanea: «La colpa di cui si parla è il limite stesso della finitezza di cui è affetta l'esistenza; e perciò una colpa senza colpevoli, perché la colpevolezza è una struttura dell'esistenza che ne è la portatrice; ed è una colpa senz'alcuna pena o castigo, perché la pena è la stessa appartenenza della finitezza all'esistenza —quindi colpa e pena finiscono per coincidere», C. Fabro, op.cit., p. 723.
[53] Giovanni Paolo II, Dominum et Vivificantem, n. 31.
[54] Ibidem.
[55] Staniloae, op.cit., p. 100.
[56] Beato Josemarìa Escrivà, Forgia, Ares, Milano 1987, n. 1044. Non entriamo nella problematica teologica della convenienza di questo prendere la sofferenza da parte di Cristo per operare la redenzione: ci basta qui il rimando alla fondamentalità del dato, abbondantemente presente nella Sacra Scrittura e nella prima letteratura ecclesiale con motivo della controversia docetista.
[57] Giovanni Paolo II, Varcare…, op.cit. pp. 68-69.
[58] Ibidem, p. 74.
[59] Come lo è stata la stessa vita terrena di Gesù, nei suoi atti concreti di eliminazione delle miserie umane, espressione dell'amore divino incondizionato verso l'uomo e della sua onnipotenza misericordiosa: «Fonte d'acqua viva, da parte di Dio scaturì questo Cristo nel deserto della conoscenza di Dio, cioè, nella terra delle nazioni: Lui, che apparendo nel vostro popolo guarì i ciechi di nascita secondo la carne, i sordi e gli zoppi, facendo con la sua parola che questi balzassero, quelli sentissero, i primi riacquistassero la vista; e risuscitando i morti e dandogli la vita incitava gli uomini, per le sue opere, perché lo riconoscessero» San Giustino M., Dialogus cum Tryphone, 69, 6.
[60] Questa verità corrisponde anche all'esperienza meramente umana del dolore: «Love, in its own nature, demands the perfecting of the beloved; that the mere “kindness” which tolerates anything except suffering in its object is, in that respect, at the opposite pole of Love» C. S. Lewis, The Problem of Pain, William Collins Sons & Co., Glasgow 1989, p. 37.
[61] Cfr M. Schmaus, op.cit., p. 656.