La tecnoetica (2003) [1]
José M. Galván
Definizione
Recentemente molte istanze della cultura mondiale stanno spingendo verso la riscoperta della dimensione etica della tecnologia. Sembra fortemente necessario un ampio e profondo dibattito che porti, come si cerca di fare già da tempo con la bioetica, alla nascita di una serie di principi comuni che possano fondare la base di ciò che si potrebbe chiamare la tecnoetica (TE). Questo intervento, senza pretese di sistematicità né di completezza, si propone di fornire alcuni elementi di base per tale dibattito.
Si potrebbe definire la TE come l'insieme di conoscenze che permetta evidenziare un sistema di riferimento etico che dia ragione della dimensione profonda della tecnologia come elemento centrale del raggiungimento del perfezionamento finalistico dell'uomo. Questa definizione presuppone di per se l'affermazione di una positività antropologica della tecnica che, non ostante si tratti di una delle più vecchie consapevolezze dell'umanità, è stata negli ultimi decenni fortemente messa in dubbio da molti settori della cultura.
Forse per questo bisogna innanzitutto distinguere la TE da ciò che abitualmente si chiama deontologia professionale dell'ingegnere. Questa importante materia riguarda specificamente l'agire libero e responsabile di questi professionali in relazione al suo inserimento nell'insieme dell'attività umana, attraverso i compiti propri della professione. La TE vuole essere più ampia, ed arrivare ad illuminare qualsiasi attività tecnica, in quanto può avere una risultante finale positiva per la persona, e la tecnica stessa, nel valore oggettivo dei sui prodotti.
Non si identifica neanche la TE con l'etica della società tecnologica, che è un concetto a sua volta più ampio, che include aspetti non tecnici dell'agire umano, non ostante si affermi un ruolo centrale della tecnologia nell'ossatura centrale della civiltà e nella definizione dei modelli comportamentali dell'uomo. In questo senso bisogna affermare senza dubbio che la TE, pur senza pretese di totalità, deve diventare un elemento importante e indispensabile, insieme ad altri, perché sia possibile uno sviluppo reale dell'uomo in quanto uomo nell'immediato futuro.
Prometeo: homo technicus
Affermare che questa realtà non sia stata presente nella storia recente della civiltà può sembrare paradossale, visto che l'umanità non può fare a meno della dimensione tecnica, fino al punto di poter dire che essa fa parte della sua costituzione: L'umanità è tecnologica per natura. La dimensione tecnica non è una aggiunta all'uomo, ma forse uno degli elementi centrali in cui l'uomo si distingue degli animali: così il mito di Prometeo, o il comando di coltivare il giardino del racconto genesiaco: gli animali sono dotati naturalmente degli strumenti necessari per la loro interazione col resto del creato; la persona umana nasce carente, ma ha la possibilità di costruire strumenti artificiali, essendo essa stessa una creatura artificiale. (Si intende per artificiale ciò che è formalizzato dalla libertà, non dall'istinto). Si afferma come base una “condizione incompleta dell'uomo”, che richiede l'interazione libera col cosmo materiale in ordine a produrre tecnologia: questa interazione guidata dalla ragione può essere chiamata, molto genericamente, “lavoro”. L'uomo, in definitiva, è Homo technicus.
Cause della visione problematica della tecnologia: il paradigma di dominio
Dicevamo prima che questa positività antropologica della tecnica è stata messa in dubbio nella cultura recente, che in base a diversi stimoli filosofici, risulta ancora largamente contraria alla tecnologia. E' una questione paradossale: da una parte, l'uomo d'oggi ha una grossissima dipendenza tecnologica; d'altra tende a credere che la tecnologia sia antiumana, una realtà dalla quale bisogna difendersi. La proposta della tecnoetica dovrà servire, appunto, per superare il paradosso.
Penso possa ormai dirsi che la battaglia contro la tecnologia, non ostante ancora ci siano delle scaramucce, è finita ed è stata definitivamente persa dai suoi nemici. Grosse forze in campo sono state coinvolte per cercare di emarginare la tecnologia emergente: basti pensare a filosofi come Heiddeger o Husserl, od a movimenti come la cultura Hippy o, più recentemente e con altre sfumature, la New Age: abbondantissimi e fondamentali prodotti della cultura e dell'arte del XX secolo hanno combattuto nell'esercito anti-tecnologico. Ma la tecnologia ha vinto dal di dentro. Se poco a poco il motore, l'elettricità, il telefono, si sono introdotti nella vita dell'uomo fino a diventare elementi che quasi non si sentono se non quando mancano, si può dire che negli ultimi anni il processo si è accelerato, e tutto è stato invaso dalla tecnologia: persino i meccanismi più basilari della produzione della vita sono caduti sotto il suo dominino.
Ma si tratta di un vero dominio, quindi, una carica insopportabile che bisogna scrollarsi d'addosso? Molti sarebbero disposti a rispondere affermativamente a questa domanda. Ma, a mio avviso, questa risposa dipende soltanto da un paradigma culturale che non è quello della tecnologia vincente, ma quello dello scientismo positivistico tipico del XX secolo.
Certamente siamo di fronte ad un mutamento epocale, anche se questo mutamento di fatto è in continuità con uno sviluppo che non si è mai fermato da quando l'uomo ha inventato la forma di fare il fuoco e la ruota. La questione che si pone è quella di un nuovo rapporto tra uomo e macchina. Nella mia opinione, anche se ci sono e ci saranno cambiamenti notevoli nelle dimensioni categoriali di questo rapporto, la sua sostanza non muterà. Un'altra cosa è che l'uomo, sempre libero e signore del proprio agire, possa gestire in maniera sbagliata questi rapporti, o che nuove circostanze possano renderli specialmente difficili. L'affermazione del dominio della macchina sull'uomo nella letteratura e nella cinematografia contemporanea non sembra avere altro scopo che quello di porre l'uomo di fronte alla questione della propria identità, per cercare, in maniera più o meno banale, una via di uscita alla chiusura antropologica a cui ha portato la civiltà dello scientismo esasperato.
Per coloro per i quali il senso profondo della persona è svuotato, ed essa è ridotta alle sue funzioni, la tentazione della sostituzione dell'altro con una macchina è forte: a livello funzionale, la macchina è meno deludente dell'uomo. Una tale idea della persona umana è tipica dello scientismo moderno, caratterizzato da una visione esclusivamente oggettiva (oggettuale) della realtà, dipendente dall'immanantismo predominate in gran parte della filosofia moderna. A questo si unisce una visione autonoma dell'uomo nel cosmo, che porta a una profanizzazione del rapporto dell'uomo con la realtà, in cui qualsiasi dimensione fondante deve rimanere all'interno dell'uomo stesso. Così l'unico possibile rapporto dell'uomo con il cosmo si riduce al suo dominio attraverso la conoscenza delle sue leggi fisiche. Ovviamente questo dominio è finalizzato alla tecnica, vista però in una dimensione puramente strumentale. Parlando in chiave teologica, si potrebbe dire che avviene una sostituzione di Dio (fondamento) con la scienza, e della religione (legame col fondamento) con la tecnica. Per questo, anche se col rischio di creare più confusione terminologica che chiarezza concettuale, è adeguato chiamare alla scienza del XX secolo "tecnoscienza". La tecnoscienza è madre di una tecnologia antiumana.
Il nascondimento e la riscoperta della persona
Se il concetto di natura viene intesso soltanto nell'ambito della tecnoscienza, difficilmente si evita la tentazione di ridurre anche l'uomo a quell'ambito, riducendo parimenti la libertà alla determinazione della fisica. Data la manifesta impossibilità di questa riduzione, si cerca, in un secondo momento, di porre l'uomo totalmente fuori dell'ambito della natura e delle sue leggi: le attività dello spirito umano si pongono al di fuori di ogni legge, ed è molto difficile, se non impossibile, fondare un ordine di riferimento etico.
Questo provoca un radicale senso di diffidenza nei confronti della persona, non dominabile dalle leggi della scienza empirica e soprattutto poco affidabile. La pretesa del paradigma scientifico di dominio sarà quella dell'assolutizzazione della tecnica, vista come unica via di redenzione davanti alla consapevolezza dell'imperfezione dell'umanità: la persona si auto-emargina. Si punta su un sistema culturale di sacralizzazione dell'immanenza che, non potendo comunque dare ragione dell'imperfezione dell'uomo, pretende di ridurre la storia a un processo in cui l'umano conti ogni volta di meno, in maniera tale da evitare l'immisurabile ed imprevedibile fattore di rischio proveniente dalla persona. Tanti profeti della crisi della modernità, come Nietzsche o Dostoievski, hanno annunciato che l'umanità aveva preso una strada in cui non ci sarebbe stato più posto per la libertà. Come sottolinea il Grande Inquisitore, la libertà è proprio l'ultima cosa che l'uomo vuole.
La crisi di questo paradigma di dominio era chiara da tempo, così come la sua radicale interna contraddizione. Non si può cadere per molto tempo nell'inganno di affermare il futuro dell'uomo unicamente come mero progresso tecnologico. L'idea di progresso di per sé è finalisticamente indeterminata, vuota, converte all'uomo in una formica instancabile, nel Sisifo di Camus. Non si può arrivare alla pienezza dell'umano unicamente aggiungendo più tempo.
Il tempo dell'uomo non può essere inteso, in chiave moderna, unicamente come l'insieme delle funzioni proprie dell'essere umano: in questo senso la vita stessa agisce come testimone dell'apertura a una dimensione trascendente, superiore, unica atta a dare un senso definitivo allo scorre vitale, fino al punto di affermare che, in determinati casi, vale la pena fare dono della vita stessa. In definitiva, l'immagine della morte “utile” è la manifestazione radicale della realizzazione personale del dono, che si avvera anche in ogni istante del percorso vitale.
Inoltre, questo paradigma è perdente anche per motivi di natura pratica: i problemi che la tecnoscienza ha creato (crisi ecologica, ingiusta distribuzione dei beni del pianeta, violenza...) sembrano ormai sufficienti come per mettere in dubbio se vale la pena mantenere i suoi vantaggi. Ovviamente vale la pena mantenerli: sarebbe un peccato dover rinunciare a delle vere conquiste dello spirito umano. Ma qualche cosa deve cambiare. La proposta della TE è che ciò che bisogna cambiare è in senso proprio la visione dell'uomo su se stesso e la sua visione della realtà. Da qui provengono i motivi più profondi del fallimento del paradigma tecnoscientifico, che non rispetta né la natura dell'uomo né la natura dell'essere in generale. Bisogna abbandonare la tecnoscienza, che include il primato della scienza sulla tecnica, e accogliere un nuovo paradigma relazionale che si impone nella postmodernità. La TE nasce dall'esigenza di fermare la tendenza che oggi sembra insita in gran parte della tecnica di svincolarsi della libertà, per affermare invece la tecnologia come attività spirituale, prodotto eminente dello spirito dell'uomo.
Riscoperta del vero senso della tecnica: paradigma di intreccio
Il paradigma tecnoscientifico di dominio non è riuscito né a rispondere né a togliere senso alle domande eterne dell'uomo che manifestano la sua trascendenze sulla realtà misurabile: il dolore, la morte, la colpa. Questi tre enigmi manifestano con chiarezza che non è possibile ridurre l'essere dell'uomo al modo di essere dell'universo. Se l'uomo postmoderno non si decide a abbandonare i suoi presupposti culturali dominanti, si vedrà costretto a scegliere tra la ricerca disperata di un sistema di redenzione immanente (neo-gnosticismi postmoderni, spesso a forte contenuto tecnodominante), o rinunciare definitivamente a qualsiasi risposta alle domande radicali dell'essere e della storia (pensiero debole). La fede nell'auto-redenzione è stata sostituita dalla certezza che le istanze intra-umane non potranno mai dare una risposta definitiva alle questioni ultime.
Esiste ormai nella cultura una certezza diffusa sul fatto che la razionalità solamente scientifica, con il suo dominio oggettivo della realtà, non può arrivare alla verità delle cose. La verità non può essere racchiusa in asserzioni universali e assolute. Conoscere non è dominare, ma partecipare alla realtà, condivisione empatica. Siamo consapevoli di non poter mantenere ancora una forma di conoscenza oggettivante e non compromessa: la nostra conoscenza della realtà deve essere incontrante, appellante e rispondente, creatrice di vincoli. Nella strada del Terzo Millennio non è possibile andare avanti con la “sola” ragione: abbiamo bisogno di una ragione “accompagnata”. Tale consapevolezza sembrerebbe costituire una delle poche basi comuni dell'umanità in questo cambio di secolo. Diverse posizioni coincidono in un cambiamento di considerazione della trascendenza: mentre nella modernità non si poteva capire la trascendenza se non come l'ambito di dominio oggettivante che cominciava immediatamente in ciò che non sono io, adesso risulta imprescindibile stabilire con essa un vicolo relazionale. Recentemente è stato detto che il più chiaro sintomo che permette la diagnosi differenziale tra modernità e postmodernità si trova appunto nel tipo di relazione che si dà tra immanenza e trascendenza: è questa relazione ciò che è cambiato (Donati). In definitiva, l'imporsi della ragione accompagnata costringe ad uscire di sé e a venire incontro all'altro che fonda la possibilità della compagnia. Questa necessità di trascendenza è, in definitiva, una riscoperta della questione metafisica: a questa istanza ci si deve rivolgere per assicurare che ciò che mi è trascendente possa essere anche destinazione del mio essere in novità di vita. Con altre parole, bisogna scoprire il nesso referenziale con la trascendenza che permetta interpretare l'io e il non-io come realtà relazionali. Sulla base della solidità di questo nesso relazionale si potrà fondare il “vale la pena” dell'autorealizzazione donale.
Nella riscoperta di questo essere relazionale, già indicato da Aristotele come la fondamentale struttura teleologica dell'uomo, si trova la chiave della felicità e della realizzazione della persona umana. E dato che l'essere dialogico richiede l'essere liberi, si può affermare che il futuro umano si spiega soltanto come libertà. Se adesso riprendiamo il dato di partenza della vittoria culturale della tecnologia, si può concludere che l'uomo postmoderno, convinto di dover contare con la tecnologia per raggiungere la felicità, deve per forza integrarla nella sua struttura dialogica, farla diventare veicolo della sua condizione donale.
Il nuovo paradigma, pertanto, comporta una chiamata all'apertura del proprio essere che si realizza nel dialogo, e in questo compito radicale riceve man forte dallo sviluppo tecnologico, che è fondato sullo stesso principio. Ogni volta di più, l'uomo si trova immerso in un intorno tecnologico che lo richiama verso una connettività totale (tecnologia di rete), a cui si sente chiamato anche dalla sua propria natura dialogica. L'uomo, che è consapevole di realizzare se stesso nella relazionalità interpersonale tramite la condivisione degli oggetti intenzionali dell'intelletto e della volontà, sa di dover e di poter farlo non soltanto nella dimensione spirituale del suo essere, ma anche in quelle materiale. La sua interazione con la materia perché questa venga inserita a pieno titolo nel dialogo interpersonale è il contenuto ultimo della tecnologia. Per questo la tecnologia ha come oggetto l'incremento della relazionalità umana, e per questo quando la scienza diventa tecnologia si umanizza. Alla tecnoscienza dominante che portava la tecnologia a una posizione di sottomissione, bisogna sostituire una scienza autentica, che sa essere aperta alla verità autentica dell'uomo, che va al di là del suo ambito, ma alla quale può e deve servire nella sua componente prassica: scientia ancilla technologiae.
La chiave antropologica della finalità della tecnologia
In altre parole, si cerca di affermare, come ha fatto Heidegger per l'arte, che anche la tecnologia arriva alla verità dell'essere con più profondità della scienza, proprio perché arriva all'uomo. In definitiva, l'indeterminazione prometeica della condizione materiale dell'uomo corrisponde alla libertà dialogica con cui la persona interagisce con la materia per farla diventare oggetto di dono. Come nel Rinascimento italiano, nella vetta della conoscenza veramente scientifica, tecnologia e arte sembrano fondersi, nel ricordo del loro comune origine semantico: la tecnè greca. Luca Pacioli, matematico e collaboratore di Leonardo da Vinci, ha coniato una frase che è stata pressa come moto del Rinascimento: “l'uomo è la misura di tutte le cose”. Per molti questa frase manifesta l'affermazione autonoma dell'uomo, indipendente da ogni dimensione trascendente. La realtà è esattamente la contraria: la frase, pressa dall'opera De Divina Proportione, vuole dire che la persona umana è il riflesso vivente dell'ordine dell'universo creato da Dio, e che diventa per questo il punto di riferimento per scoprire quest'ordine (Pepper). L'uomo trascende l'universo, ma l'universo e l'uomo non sono due realtà separate: l'uomo include il resto della realtà materiale nel suo essere dialogico: ogni “oggetto” attraverso l'uomo può diventare occasione di intreccio significativo.
All'interno della ricerca di rapporti significativi col cosmo, che non siano mai oggettuali, bensì coinvolgenti la persona ed il suo essere dialogico, sembra quasi evidente la speciale fecondità dell'esperienza artistica. In chi ne gode, essa comporta sempre il sorgere di una chiamata esterna a noi, segnata dalla soggettività dell'artista e piena di una complessità di evocazioni. Tale chiamata comporta simultaneamente un'apertura dell'essere personale, che non si produce nel caso di esperienze meramente oggettuali, e un arricchimento all'interno di se stessi, conseguenza del fatto che l'opera stessa si dona, si fa presente nell'osservatore come propria: è «diversa ma non distante». Si dà una circolarità dialogica in cui possedere l'opera d'arte ed essere da essa posseduto comporta, in un apparente paradosso, un mutuo perfezionamento.
Lo stesso succede, e ancora di più, quando l'esperienza artistica si da nell'artista stesso, nel momento della creatività. L'arte vera comporta il riconoscere l'alterità dell'opera, che è per l'artista rivelazione, esperienza di dono, e nello stesso tempo prodotto della propria capacità tecnica. Nella stessa misura in cui l'artista si apre e riceve il dono dell'inspirazione, egli è in grado di produrre come propria l'opera d'arte, che perciò gli appartiene e non gli appartiene simultaneamente. O meglio ancora: gli appartiene in quanto opera d'arte, appunto perché in un certo senso non gli appartiene, gli è stata donata.
Il paradigma di intreccio fa misurare la tecnologia su questa falsariga dell'arte. La dimensione estetica dell'esistenza ha come base, appunto, il fare diventare interazione con gli altri qualsiasi interazione del singolo con la realtà materiale. L'elemento artificiale viene visto nel suo senso più alto, come prodotto dell'interagire libero dell'uomo con la realtà materiale, e, in quanto libero, creatore di dialogo interpersonale. Bisogna riscoprire la positività antropologica del termine “artificiale”, che è sempre espressione di libertà: in fondo l'uomo stesso è un essere artificiale, nella misura in cui è in grado di “farsi”, di auto-costruirsi con le proprie azioni, nel bene e nel male; proprio per questo la produzione di artifici, dall'artificio tecnico (macchina) all'artificio simbolico (linguaggio), ha un intrinseco valore etico. L'artificio diventa veicolo del essere nel mondo, del essere con gli altri, dell'essere se stessi. La tecnologia diventa occasione di intreccio: la visione estetica la redime dal pericolo, a volte da alcuni indebitamente esasperato, di sostituirsi all'uomo, e la assume in una condizione pienamente umana. La macchina stessa più si perfeziona e più si nasconde dietro il suo compito, più diventa trasparente alla sua vera finalità: l'uomo.
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[1] Relazione nell Seminario “Speranze e timori della scienza e la tecnologia”, 44 Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, 21 giugno 2003