Le neuroscienze e l’immagine cristiana dell’uomo (2004) [1]
José M. Galván
L'immagine cristiana dell'uomo non ha nulla da temere dalla verità scientifica. Se affermiamo nella loro integrità i principi fondamentali dell'antropologia rivelata, non possiamo non avere una visione ottimistica davanti allo sviluppo delle neuroscienze; al massimo ci sarebbe da essere preoccupati per l'uso che di queste nuove conoscenze l'uomo stesso possa fare. Perciò, secondo me, il problema che si pone non è tanto quello del rapporto tra neuroscienze e antropologia cristiana, quanto quello del rapporto tra scienza esperimentale e tecnologia, intendendo qui per tecnologia l’insieme di conoscenze pratiche che permettono l’applicazione antropologicamente rilevante delle conoscenze scientifiche. Le soluzioni che, nelle diverse circostanze della storia delle culture e delle civilizzazioni, l'uomo ha dato al rapporto tra questi due concetti hanno avuto sempre delle ricadute immediate e trascendentali per l’essere umano.
I nostri giorni vedono crescere sempre di più il ruolo della tecnologia nell'ossatura portante della civiltà e nella definizione dei modelli comportamentali dell'uomo: dall'ingegneria genetica alle neuroscienze, la tecnica sembra avere guadagnando un posto centrale persino negli ambiti dell’origine della vita e delle sue più alte manifestazioni, quelle che si è soliti riferire alla dimensione spirituale dell’uomo.
L’uomo è un essere tecnico per natura: la sua condizione non soltanto richiede un’interazione creativa e continua con il resto della creazione materiale, ma addirittura l’uomo accresce la propria natura (diventa “più uomo”) attraverso quell’interazione, frutto del suo ingegno. Se questo è così, non dovrebbe essere difficile affermare che il nuovo ruolo della tecnica avrà come conseguenza un incremento nella realizzazione integrale della persona. Ma ritengo che pochi sono in grado di essere così ottimistici. Le ferite causate all’umanità e alla natura da un secolo di tecno-scientismo sono fin troppo evidenti. Come superare il paradosso? La questione non è tanto fermare la conoscenza del reale e le sue applicazioni tecniche, ma ricuperare un vero senso della persona che permetta di capire che tecnica e scienza esistono perché esiste l’uomo, ed è l’uomo che le misura, non sono loro a misurare l’uomo. Il secolo scorso si è caratterizzato per la sostituzione di Dio con la scienza e della religione con la tecnica. Il completamento finalistico dell’uomo veniva visto unicamente in dipendenza dal progresso nel suo dominio oggettivante della creazione materiale. In parole di Giovanni Paolo II, all'inizio del suo pontificato, «se la scienza è intesa essenzialmente come 'un fatto tecnico', allora la si può concepire come ricerca di quei processi che conducono a un successo di tipo tecnico. Come 'conoscenza' ha valore quindi ciò che conduce al successo. Il mondo, a livello di dato scientifico, diviene un semplice complesso di fenomeni manipolabili, l'oggetto della scienza una connessione funzionale, che viene analizzata soltanto in base alla sua funzionalità. Una tale scienza può concepirsi soltanto come pura funzione. Il concetto di verità diventa quindi superfluo, anzi talvolta viene esplicitamente rifiutato. La stessa ragione appare, in definitiva, come semplice funzione o come strumento di un essere che trova il senso della sua esistenza fuori della conoscenza o della scienza, nel migliore dei casi nella vita soltanto (...) Una scienza libera e asservita unicamente alla verità non si lascia ridurre al modello del funzionalismo o ad altro del genere, che limiti l'ambito conoscitivo della razionalità scientifica. La scienza deve essere aperta, anzi anche multiforme»[2].
Anche se questa visione limitata sta crollando con la post-modernità e i suoi modelli relazionali, bisogna constatare che è ancora sostanzialmente presente nella cultura odierna. Per coloro per i quali il senso profondo della persona è svuotato, ed essa è ridotta alle sue funzioni, la tentazione della sostituzione dell'essere umano con una macchina è forte: a livello funzionale, la macchina è meno deludente dell'uomo. Con quest’ottica antropologica, non risulta difficile immaginare le conseguenze negative che una profonda conoscenza dei meccanismi del cervello può causare. Perché il problema è che l’uomo ha bisogno del corpo, del sistema nervoso in primo luogo, per esprimere la sua realtà spirituale. La verità fondamentale dell'antropologia cristiana è che l'uomo è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio; quest'immagine si dà nell'unità sostanziale somato-spirituale che costituisce l'essere dell'uomo. In base a questo principio, affermiamo che il corpo funge come simbolo, manifestazione dell'essere dell'uomo: la dimensione spirituale, non ostante sia di per sé conoscibile, non avrebbe una parola in questo mondo senza la corporeità. Ma questa corporeità, veicolo di espressione dello spirito, è anche il motivo per cui la persona umana può essere subordinata, manipolata, schiavizzata. Per l’antropologia cristiana, la relazione mente-cervello è proporzionale, anche sé non identica, alla relazione anima-corpo.
La questione è urgente. Pensiamo, per esempio, alle tante applicazione che nell’ambito del rapporto tra neuroscienze e robotica può avere una più profonda conoscenza del cervello umano: lo sviluppo di una interfaccia mente-macchina (già esistente a livello esperimentale) può fare pensare, in un futuro molto prossimo, a sistemi exo-scheletrici che, guidati in maniera naturale, possano far camminare a persone paraplegiche; o all’integrazione di membri robotici (mani, gambe...) in persone amputate, in grado non soltanto di sviluppare le funzione motorie, ma anche di “sentire” e trasmettere al cervello sensazioni di temperatura, pressione, tersura... I sistemi ibridi bionici possono aprire orizzonti insospettati alla realizzazione dell’essere umano, sia come sostituzione che come potenziamento. Ma tutti questi ingegni poggiano su tecnologie che permetterebbero facilmente anche il dominio esterno di un corpo umano... La tecnoetica, per tanto, è diventata una questione prioritaria, e, nell’ambito dell’uso delle conoscenze scientifiche in senso antropologicamente positivo, la visione cristiana della persona ha molte cose da dire, proprio adesso che il paradigma relazionale sembra essere in grado di sconfiggere definitivamente l’antico paradigma di dominio della realtà materiale. Non dimentichiamo che la chiave dell’antropologia cristiana fa riferimento all’essere immagine di un Dio-Trinità, che è in sé stesso comunione interpersonale e che include in quella comunione, tramite l’Incarnazione, tutta la realtà creata. E questa inclusione dà ragione ultima a qualsiasi esperienza metafisica o estetica del mondo.
D’altra parte, molte delle nuove scoperte stano avvicinando l’immagine neurofisiologica dell’uomo all’immagine rivelata: il superamento dei modelli funzionali additivi, per esempio, con la conseguente affermazione dell’unità sistemica del cervello, punta verso un principio unificatore in cui troverebbe riscontro l’idea cristiana di anima o di mente; altri sistemi per spiegare l’unità, come la cosiddetta “teoria dello psicone” di Eccless sembrano non reggere né alla critica di dualismo in ambito filosofico, né al progresso delle neuroscienze. I tempi in cui i membri di una nota scuola fisiologica berlinese, all’inizio del ventesimo secolo, giuravano solennemente di dedicare la propria esistenza a dimostrare che l’uomo non è altro che una evolutissima macchina biologica (contradicendo sé stessi nell’atto di autodestinarsi nel tempo!) sembrano lontani: la riduzione di tutto ciò che è umano all’organico, anche sé molto utile e comoda per alcune categorie (i medici, per esempio!), è diventata molto ardua nei nostri giorni. La vita umana è passibile senza dubbio di una regolazione artificiale, il che non soltanto non è necessariamente negativo, ma addirittura può diventare ottimo, dal momento che tutto ciò che è artificiale proviene dalla libertà umana, e può portare pertanto al perfezionamento finalistico dell’uomo. Ma la regolazione artificiale è esterna, e la mente umana si dimostra, ogni volta di nuovo, una struttura funzionale unitaria che possiede in sé stessa la forza di autodestinarsi: la vita sempre è al di sopra. Il futuro servizio che le neuroscienze potranno prestare all’umanità dipenderà dal concetto che avremmo di vita umana, di essere personale.
[1] Pubblicato in «Vita&Pensiero» 87 (4/2004) 67-69.
[2]Discorso, Colonia 15.11.1980, Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. III/2 (1980) 1200-1211.